Pubblicato su "Il Lunario Romano 1988 - Tra le abbazie del Lazio" - F.lli Palombi Editori
di Giuseppe Chisari e Carlo De Paolis
Attirati dalla pubblicità di una iniziativa folcloristica locale, percorrevamo la strada che, partendo da Rieti in direzione di Fassinoro e Longone Sabino, sovrasta la dorsale della catena dei rilievi che formano lo spartiacque tra i bacini del Salto e del Turano.
Il percorso, un po' sinuoso, non consente la velocità e permette quindi anche al viaggiatore solitamente frettoloso di godere una serie di interessanti prospettive sull'una e sull'altra vallata. Le file visibili di monti, parallele alla cresta che si percorre in certi punti, si contano fino a cinque. Tipici gli abitati arroccati che si fanno apprezzare in tutti i modi possibili. All'intorno una corona di complessi montuosi di tutto rispetto: Terminillo, Nuria e Nurietta, Moro e, sullo sfondo, Velino e persino Gran Sasso.
A circa 20 km. da Rieti, non sulla cima di rilievi ma tra le pieghe del1'altopiano, nel territorio anticamente denominato "Monte Letenano sive Boianus", fra il monte Aquilone e il monte Sole, già si vede un tozzo campanile e un fabbricato quadrilatero di ampie dimensioni con notevoli torrioni quadrati ai vertici, e un'ampia chiesa esterna al recinto. Ancora tre chilometri e si arriva in prossimità di questo maestoso monumento che appare però come un guscio vuoto riempito di macerie, di mozziconi di travi, di erbacce. Rimane tuttavia la grandiosità del complesso, il rilievo dei torrioni e della torre campanaria 1'elevato dei muri smozzicati, le finestre slabbrate per essere state private di recente di stipiti e cornici.
L'imponenza di questa costruzione suscita la curiosità e a questo punto ci si accorge che nessuna delle guide turistiche più aggiornate e di larga diffusione ne fa cenno. Chi volesse prendersi la briga di chiedere informazioni si accorgerà che nessuna abitazione sorge nelle adiacenze e che i centri più vicini - Longone Sabino, Vaccareccia e Pratoianni - distano oltre un chilometro. Qui, qualche anziano contadino o pastore potrà dirvi che quella rovina è, anzi era, il "Seminario" e forse potrà aggiungere che un tempo si chiamava "Abbazia di S. Salvatore Maggiore"[1].
Chi non si illumina pensando alle grandi abbazie del Lazio, per limitarci a quelle più vicine, Montecassino, Subiaco, Casamari, Farfa? Ma quella di S. Salvatore Maggiore è ignorata dai più, non esistono note storiche recenti e bisogna cercare più a fondo, risalire nel tempo. Allora sì che si trova, non molto, ma certamente vengono alla luce dati e informazioni densi di significato e con riferimenti sensazionali.
La ricerca di queste informazioni, dei riferimenti, dei collegamenti, pur incompleta, è stata appassionante e ancor più lo sarebbe stato se si fosse potuto leggere quello che il monumento rinserra tra le pietre. I segni della vita che vi si è svolta, gli avvenimenti che vi sono accaduti, le impronte lasciate dalle persone che lo hanno abitato; qualcosa si vede, qualcosa si sa, qualcos'altro si intuisce, ma quanto ancora vi è celato?
Quello che si vede è un fabbricato quadrilatero di m. 55 x 65, con cortile interno e due torrioni ai vertici occidentali, per complessivi mq. 4.180. La chiesa, esterna, è a una sola grande navata con cappelle laterali ed è affiancata da una poderosa torre campanaria. La pianta della chiesa è tipica dell'architettura altomedievale franca (Perogalli). Il tutto abbondantemente lesionato, smozzicato, sventrato, franato. Scrive il Palmegiani che il monastero occupò le rovine di una sontuosa villa romana. E 1'affermazione è condivisa dal benedettino card. Idelfonso Schuster che più di tutti ha ricercato e scritto su questa abbazia. Anzi, dai suoi appassionati studi si possono ricavare le più interessanti notizie e i riferimenti più documentati. Lui ha potuto vedere, e ne ha tramandato memoria, un antico sarcofago con iscrizione usato come abbeveratoio e oggi sparito, capitelli e cornici romane nonché numerose epigrafi adoperate nei pavimenti.
Uno studioso locale che asserisce di aver visionato queste epigrafi, attribuisce la villa ad una famiglia di Flavi ricordando che non sono lontane le terme di Cutilia e una residenza di Vespasiano.
Il sito é gradevole, l'acqua fresca e abbondante, i boschi ombrosi, il terreno fertile, la selvaggina a portata di freccia e giavellotto: perciò non è impossibile che un veterano non più in grado di guerreggiare possa aver ricevuto l'assegnazione di queste terre e con il gruzzolo delle prede e con l'opera degli schiavi abbia edificato una "villa rustica" di qualche pretesa. Sono ancora lì tre tronconi di colonne di granito (due di granito grigio e uno di granito rosso) certamente venute da lontano, atteso che di granito la zona è assolutamente sprovvista.[2]
E, visto il tono del fabbricato, non ci vuole grande sforzo per immaginare che forse lo stesso imperatore sia stato ospite dei padroni per qualche partita di caccia al cervo (di qui, appunto, il nome del comune di Concerviano, una volta Collis Cervinus) o vi abbia sostato di passaggio per Cutilia, in un percorso alternativo alla via Salaria. E a quanti altri, viandanti, viaggiatori illustri o sconosciuti, soldati, mercenari, sbandati, sconfitti o vincitori, la colonna di granito ancora in piedi ma non più diritta, che intorno al capitello, quasi come l'insegna di un albergo, reca la scritta "S. Salvatore Maggiore", ha fornito l'indicazione del luogo, posta com'è ad anticipare l'ingresso del monastero?[3]
È ipotizzabile che a fondare l'abbazia sia stato un gruppo di longobardi o di franchi o comunque qualche nobile chiamato alla vita monacale per seguire la regola di S. Benedetto in quanto nel 735, anno di fondazione, la regione era dominata dai longobardi che vi esercitavano il potere nelle persone del duca di Spoleto e del gastaldo di Rieti. Del resto, poco più di un secolo prima altri nobili avevano fondato Farfa che sorge lungo il corso dell'omonimo fiume, le cui sorgenti, guarda caso, sono non molto lontane da S. Salvatore[4].
Ora, sia Farfa che S. Salvatore furono abbazie imperiali. L'anno di fondazione di S. Salvatore è certificato nel Regesto Farfense[5] compilato da Gregorio di Catino. Quando l'abate di S. Salvatore, dopo il saccheggio e la distruzione del monastero ad opera dei Saraceni nell'anno 891 e la riedificazione nel 974, cercò documenti della precedente attività li chiese a Farfa.
È stato scritto che per tradizione i monaci di Farfa trascorrevano l'estate a S. Salvatore, mentre l'inverno quelli del monte Letenano scendevano a Farfa. Non si dimentichino neppure i secolari rapporti d'amicizia tra i due gruppi di monaci - non usuali tra religiosi - che armonizzavano le rispettive zone di dominio scambiandosi le dipendenze quando risultava più conveniente che le stesse fossero governate dall'altra comunità. Come non pensare perciò che in realtà sia stato uno o più monaci di Farfa a occupare quello che rimaneva della villa romana in occasione di qualche giro, risalendo il fiume Farfa? Ricordiamoci che Longone Sabino fu soggetto a Farfa prima di passare a S. Salvatore.
Chi ancora, forse senza saperlo, è in possesso di documenti provenienti dall'abbazia di S. Salvatore, ha le ultime reliquie di un pezzo di storia che si va cancellando, perdendo. Il saccheggio dei Saraceni è uno dei tanti guasti che questi predoni produssero nell'Italia centrale, dove avevano una potente base nel salernitano. Impadronitisi della Sicilia, frequentavano ormai l'Italia meridionale o per propria iniziativa o perché chiamati in alleanza da questo o quello dei signori che volevano regolare i conti con avversari o concorrenti. La forza militare saracena doveva poi avere il compenso nel saccheggio e nella rapina che venivano esercitati con azioni rapide in tutto l'alto Lazio; e le abbazie opulente di derrate, arricchite di donativi preziosi, costituivano un obiettivo primario. Prima o poi caddero tutte sotto l'irruenza e la violenza di questi saccheggiatori. Se i monaci non facevano in tempo a nascondere le cose più preziose, sacre e profane, e a mettersi in salvo, era impossibile che riuscissero a resistere e a scampare la vita.[6] I martirologi dei tempi successivi, scrive Schuster, registrano il risultato di questi eccidi con l'indicazione delle ricorrenze cerimoniali di suffragio e di ricordo.
La condizione di "abbazia imperiale" aveva riflessi notevoli: da un lato il monastero doveva intrattenere con l'imperatore particolari rapporti di vassallaggio, inviargli parte dei prodotti delle proprie terre, pagare a lui un tributo e questo significava carovane che si recavano periodicamente alla corte imperiale, in Francia o in Germania o a Roma, a seconda di dove in quel periodo si trovava l'imperatore; significava corrispondenza (risulta che Alcuino, l'influente consigliere di Carlo Magno, scrisse più d'una volta all'abate di S. Salvatore) e significava infine, autorizzazioni per l'elezione dell'abate. Dall'altra parte, nei confronti del papa c'era d'altronde un riguardo non solo formale; anzi S. Salvatore, come le altre abbazie più importanti, era "nullius", cioè non soggetta ad alcuna autorità diocesana, e dal punto di vista ecclesiastico dipendeva direttamente dal pontefice.
Dalle vicende note si ricava la sensazione che di questa autonomia i monaci di S. Salvatore non fecero buon uso. Infatti essi seguivano il "rito franco" e questo a Roma non era affatto gradito, tanto è vero che essi furono ripetutamente richiamati. Non solo, ma sia il vescovo di Tivoli, che quello di Spoleto, che l'abate di S. Lorenzo fuori le mura, a turno, furono incaricati di recarsi in visita al monastero per riformarne le regole e ricondurre i monaci ad una vita più consona al loro stato di religiosi. Furono persino minacciati di scomunica se non avessero smesso il rito franco.
Che cosa in realtà fossero queste deviazioni non è dato sapere, tuttavia nelle lettere di incarico a quegli "ispettori" si parla di "collasso della abbazia" e il fatto che le visite si ripeterono significa pure che, malgrado le tirate d'orecchio, le cattive abitudini non cessarono nel cenobio.
I monaci di S. Salvatore, poi, acquisirono il nomignolo di "berrettanti" a causa del particolare copricapo che d'abitudine portavano. "A Bireti de Laonensi nuncupatos" si legge sulla bolla del 12 settembre 1629 di Urbano VIII, e viste le iniziali maiuscole sembra che il riferimento sia diretto ad una persona e non ad una speciale foggia di cocolla monacale come fabbricata a Laon, cittadina francese a sud di Parigi, famosa nel Medioevo, oltre che per le fabbriche di tessuti di lana, per essere sede di grandi monasteri, tra cui uno di benedettini ed un altro di templari. Se di persona si tratta, non siamo riusciti a saperne altro; se di cappello, perché le maiuscole e quella forma "a Bireti" se biretum è sostantivo neutro della 2 a declinazione?
Va sottolineata anche la circostanza che, nonostante la posizione del monastero lo permetta, non esistono altri fabbricati vicini. L'abbazia è isolata, si direbbe sdegnosa, al punto di non consentire a nessuno di starle accanto. Gli insediamenti sono ad almeno un chilometro. Persino il cardinale commendatario aveva una sua casa a Longone, sede del braccio secolare. Nei dintorni c'è anche una località detta la "macchia del cardinale" e la fontana dell'abitato di Vaccareccia è detta "fonte del cardinale".
Evidentemente l'abbazia era autosufficiente, anche se bisognerà cercare e trovare le tracce di questa autosufficienza. Per esempio, del luogo dove si facevano i mattoni, le tegole e il vasellame, visto che l'argilla abbonda nella zona.
I monaci vivevano separati dalle comunità di fedeli circostanti. Chiese e cappelle negli abitati dei dintorni testimoniano la religiosità della popolazione, ma l'abbazia al termine della giornata chiudeva il pesante portone e si isolava. L'esclusione dal mondo alimentava dicerie e chiacchere, fondate o meno che fossero, e ancora oggi i vecchi favoleggiano di stanze per le torture, di trabocchetti per farvi cadere intrusi o visitatori sgraditi, di prigionieri urlanti e simili.
Si sia trattato di scelta volontaria o di motivo casuale non è dato di saperlo, ma è un fatto che dai paesetti attorno l'abbazia non si scorge. Si sentiva solo la campana quando c'era ancora e suonava.[7] Un altro fatto curioso è che nell'abitato di Vaccareccia, una frazione dove d'inverno oggi vivono non più di una decina di famiglie, nella parte più vecchia dopo la porta che in antico rinserrava tutto il paesino esiste una "Via Ariana" su cui non si riesce ad avere una qualche spiegazione. Se avesse attinenza con il "rito franco", con i "berrettanti", con le minacce di scomunica; con la venerazione delle reliquie dell'antipapa S. Ippolito, e infine con la soppressione dell'abbazia nel 1629 ancora non si sa.
Ma vediamo di ripercorrere attraverso i fatti noti, le vicende di questa misteriosa abbazia.
Della fondazione e della distruzione si è detto. C'è da aggiungere che forse il primo abate fu quello di nome Adroaldo, citato in un atto dell'anno 752, insieme ad altri monaci: Nonnus e un presbitero di nome Anastasius. Nell'atto il monaco Teuto vendeva a Farfa il casale "Lunghezza" per venti libre d'argento, l'abate Adroaldo dava il suo consenso e Nonno e Anastasio erano i testimoni. Per una strana coincidenza lo schedario Garampi dell'Archivio Segreto Vaticano registra nell'anno 753 un "Teuton ep. eccl. Farfen Reatin" e nell'anno 755 "Teuto ep. Reatin Gallorum Gentis". Dai nomi degli intervenuti nel contratto sopra citato si può notare la variegata composizione del gruppo dei monaci in quei primi anni di vita.
La ricca biblioteca di Farfa, che custodisce preziosi documenti, conserva anche il testamento di tale Teuderacius che, dovendo partire al seguito di Adelchi e di Desiderio nell'anno 768, dispone dei suoi beni per il caso che non torni dalla guerra contro i Franchi. Gran parte delle sue proprietà sono destinata a Farfa, ma al monastero del Salvatore attribuisce "casalem nostrum in hilla heneria, quem habemus prope Alipertum et Teuderadum germanos, cum terris et silvis in intergrum"[8].
La conquista franca mette in condizioni ottimali sia Farfa che il Salvatore e questo si giustifica soltanto con la presenza tra i monaci di connazionali o addirittura di consanguinei dell'imperatore Carlo Magno. Nel 794 era abate Usualdus e monaci erano Frodipertus presbiter, Leofanus presbiter, Iohannacius diaconus, Theodtpertus diaconus, Teoprandus presbiter, Fulco diaconus. Nell'anno 807 si trova nominato l'abate Leufo: l'origine germanica dei nomi risulta evidente.
Il Salvatore (e Farfa) vengono assunti nella "defensio imperialis" e papa Stefano III ne conferma i beni mentre Pasquale I offre ricchi doni e cioè "vestem de chrysoclavo cum istoria [] diversis ornatam margaritis [] aliam obtulit vestem de fundato, habentem cruces de blatthin byzantea et perichysim de chrysoclavo mirifice ornatam.[9]
Schuster giustifica il doppio importante donativo con l'esistenza di due chiese nel monastero del Salvatore: una dedicata appunto al Salvatore la cui ricorrenza era ricordata il 16 Kal. febr., l'altra intitolata a S. Pietro e ricordata il 4 Kal.. oct. . Nel monastero si festeggiava anche il 7 idus maji, come la data della traslazione del corpo di S. Ippolito martire. È curioso che di questo martire, di cui si ignora la tomba, scrive Schuster, siano coperte dal mistero non solo le reliquie ma anche la figura. È stato il primo degli antipapi e tuttavia era venerato come martire e vescovo, e riconosciuto genio del cristianesimo.
E che cosa pensare di questi monaci che si portano nel monastero le reliquie dell'antipapa per venerarle? Leone IV addirittura minaccia l'anatema all'abate Onoratus perché i suoi monaci non vogliono adottare il Sacramentario romano e le melodie gregoriane in luogo dei riti franchi?! Certo è che, per essere dei religiosi "regolari", seguivano proprio delle regole del tutto indipendenti. Il fatto è che del gruppo facevano parte sia aquitani che longobardi; le ricchezze del cenobio si spiegano solo con la generosità dei possidenti dell'epoca verso i propri parenti e consaguinei che avevano scelto la vita religiosa, e in quel periodo storico franchi e longobardi erano i padroni dell'Italia centrale.
Del cenobio facevano certamente parte figure di rilievo per carattere, per cultura e per lignaggio. Tra queste va segnalato, anche per alcune singolari coincidenze, l'abate Anastasio che troviamo al Salvatore nell'anno 872 dopo l'abate Onorato. L'ultima notizia relativa a Onorato è dell'anno 855: e proprio tra gli anni 853 e 879 da Roma sparisce Anastasius bibliotecarius, personaggio eminente, cardinale scomunicato e deposto da Leone IV, nipote di Arsenio vescovo di Gubbio e capo del partito imperiale. Nell'855, alla morte di papa Leone IV, Anastasius è addirittura candidato al soglio pontificio, sostenuto dalla zio Arsenio e da Ludovico II, ma gli viene preferito il cardinale presbitero di S. Callisto che prende il nome di Benedetto III. Papa Benedetto, anche per inimicarsi il partito imperiale, riammette Anastasio nella comunità ecclesiastica con la qualifica di abate di S. Maria in Trastevere.
Sta di fatto che, quando nell'anno 872 l'imperatore Ludovico II è in visita a Farfa, vi riceve l'omaggio anche dell'abate Anastasio di S. Salvatore e concede a entrambe le abbazie privilegi e guarentigie (mantiene però l'obbligo al fodrum verso l'imperatore che verrà annullato dal successore Carlo il Calvo). Questi monaci, aquitani e longobardi, andavano tanto d'accordo con il potere civile che dai papi furono continuamente accusati di insubordinazione e deviazionismo fino al punto di essere scomunicati dal papa Leone IV. Merita di essere ricordato l'intervento di Giovanni VIII nei confronti dell'abate Anastasio con l'ordine di restituire a Gauderico, vescovo di Velletri, la chiesetta di S. Valentino. Dice il papa all'abate: "monemus religionem tuam et expresse precipimus", e poiché non confida molto nella forza dello scritto aggiunge: "Quod etiam tibi factendum per presentem, cubicularium nostrum mandamus, ut aliter nullo modo facias"
Le coincidenze sono queste:
- Anastasio bibliotecario lascia Roma dopo essere stato consacrato prete cardinale di S. Marcello da Leone IV e rimane contumace a tutti i richiami;
- i richiami diventano scomunica nell'850, anatema e deposizione nell'853;
- nello stesso periodo le stesse pene sono irrogate ai monaci di S. Salvatore;
- Anastasio alla morte di Leone IV sta per essere eletto Papa, ma poi prevale Benedetto III che successivamente lo perdona e lo fa rientrare a Roma;
- la presenza di Anastasio abate di S. Salvatore a Farfa, in visita di omaggio, all'imperatore Ludovico II, si inquadra perfettamente nella vicenda sia dal punto di vista temporale e sia per la coincidenza filoimperiale del personaggio.
Ma Anastasio, bibliotecario o meno, a S. Salvatore deve aver istituito o quanto meno dato impulso all'attività di trascrizione di testi e codici che in quel periodo le migliori abbazie già svolgevano. Questa attività, di cui Farfa traeva grande vanto, era ovvio dovesse esistere anche a S. Salvatore per i noti legami tra i due cenobi, ma Schuster riferisce un episodio che indirettamente fornisce la prova. Papa Alessandro II, volendo sottrarre a S. Pier Damiani (1007-1073) il manoscritto "Gomorrianus" non intendendo farlo diffondere, gli disse che lo mandava all'abbazia di S. Salvatore per farlo copiare (mentre poi lo fece chiudere negli archivi del Vaticano).
Il riferimento alla "copisteria" del Letenano, non mancando a Roma e nei dintorni, e in particolare a Farfa, altri celebri scriptoria, non può che confortare l'ipotesi che in quella abbazia esistesse una scuola nota e ben valutata. Da questa scuola sono usciti lavori (martirologi) che sono serviti da riferimento e da esempio per le successive compilazioni sullo stesso tema. Dall'archetipo del Letenano sono stati tratti i martirologi in uso a Montecassino, a S. Ciriaco in via Lata, a S. Maria in Trastevere (c'entra forse Anastasio bibliotecario?) e altrove. Che peccato che di questi benedetti benedettini berrettanti non si trovino che poche notizie e così indirette!
Il filare degli olmi che delimita la grande radura davanti al portone di ingresso deve aver rinfrescato con gradevole ombra le tende di chi si accampava sotto le mura di questa abbazia-fortezza, le feste di chi nelle ricorrenze accorreva per le cerimonie solenni, i cortei e la vita di ogni giorno. E il periodo successivo alla ricostruzione dell'abbazia, dopo la distruzione nell'891 ad opera dei Saraceni ("Guido imperator monasterium Salvatoris a paganis incenditur"), deve essere stato fecondo di risultati. I secoli a cavaliere dell'anno Mille portarono benessere, successo, rinomanza e ricchezza sul monte Letenano. Furono acquisiti feudi, terreni, castelli, conventi e chiese a Fermo, Ascoli e Roma, oltre che intorno al monastero stesso e nella regione aquilana. Questo periodo felice si protrasse fino al XIII secolo. Dopo iniziò il declino che si accentuò nell'anno 1399, allorché il Papa decise di nominare stabilmente un commendatario: l'abate non fu più eletto dai monaci in piena autonomia ma nominato dal pontefice.
Era l'effetto della vittoria del papato sull'impero e il risultato della sottomissione dell'abbazia all'autorità pontificia come avvenuto per Farfa con il privilegio di Urbano IV del 23 febbraio 1282. Il documento con cui Onorio IV garantisce i beni del S. Salvatore è del 24 aprile 1281 e pertanto la defensio imperialis sui due cenobi deve essere cessata negli anni immediatamente precedenti.
La ricostruzione del monastero è datata nell'anno 974[10] e i monaci vi si impegnano a fondo dopo che è stato portato avanti il lavoro a Farfa: ulteriore dimostrazione che le due abbazie procedevano di conserva anche se in piena autonomia di patrimoni e di organizzazione.
Il significato di abbazia imperiale si percepisce in pieno alla luce di molti fatti. A Rieti nell'887 muore il vescovo Riccardo: papa Stefano V scrive allora al duca di Spoleto, Guidone, comunicandogli che lo avrebbe consacrato nuovo vescovo di Rieti non appena ne avesse avuto licenza scritta dall'imperatore. Il 25 gennaio 941 Lotario, Re d'Italia, come già il predecessore Ugo, dona la Corte di Sala (Carsoli) e il Gastaldato del Turano al monastero benedettino di Subiaco: il papa Gregorio V confermerà i beni del monastero il 27 giugno dell'anno 997. Era il periodo in cui Farfa recuperava il patrimonio che consoli e duchi di Sabina avevano usurpato. Anzi nel 1125 l'abate Adenolfo di Farfa, già abate di S. Salvatore, amico di S. Bernardo di Chiaravalle, gli chiede di intervenire presso l'abate Pietro Bernardo, che nel 1145 diverrà papa Eugenio III, affinché un gruppo di monaci cistercensi potesse andare al monastero del S. Salvatore, dove evidentemente i religiosi scarseggiavano. Ancora una volta la collaborazione tra Farfa e S. Salvatore emerge con precisi riferimenti.
Al contrario nulla si sa di come l'abbazia abbia vissuto il periodo delle Crociate, se e in quale misura i monaci si siano impegnati per convincere le persone a parteciparvi, i vassalli a partire per la Terra Santa. Gli avvenimenti di quel periodo non sono certo passati sopra il monte Letenano senza lasciare traccia, anche se la stessa non è per ora rilevabile. Si dovrà cercare forse in fondo alle cripte oppure tra i rovi del chiostro, ma i monaci del Salvatore sono certamente stati in Palestina al seguito dell'imperatore.
Denso di avvenimenti per il Salvatore è l'anno 1149, allorché Ruggero il Normanno, re di Sicilia, prende le armi contro il papa e dopo il saccheggio di Roma si dirige sulle città del Lazio, impadronendosi anche di Rieti che affida in feudo ai suoi. Nel 1183, al tempo di Guglielmo II, tra i titolari di feudi della regione sabina è elencato Rinaldo di Sinibaldo signore di Mareri, il quale possiede anche alcuni feudi di S. Salvatore Maggiore.
Una fazione di questa famiglia, fedele alla causa imperiale tedesca subisce le conseguenze della sconfitta inflitta da Tancredi a Enrico VI nel 1191. Un altro ramo dei Mareri, avverso a Federico II, perde nel 1241 i beni del Lazio e dell'Abruzzo, ma alla morte di Federico il papa Innocenzo IV reintegra i discendenti nelle terre già appartenute alla loro famiglia sia nel regno pontificio sia in Abruzzo.
Altri Mareri seguono la causa di Corradino. A seguito della sconfitta subita a Tagliacozzo nel 1268 e alla conseguente incarcerazione di Corradino, essi sono spogliati dei beni che nel 1277 vengono assegnati a Stefano Colonna. I Mareri beneficiano di un'altra reintegrazione per opera di Roberto Re di Napoli il 19 febbraio 1323, ma nel 1510 l'intera famiglia è sterminata da mani assassine e l'unica superstite, Costanza, si disfa della contea vendendola nel 1532 al cardinale Pompeo Colonna.
I dati di cui sopra sono da tenere presenti perché questi Mareri diedero al monastero del Salvatore monaci e abati tra cui Ludovico nel 1393 e Antonio nel 1427.
Per tornare alla vita dell'abbazia, la presenza dei monaci cistercensi aveva portato nella comunità le regole di Cluny e anzi si era verificato che, mentre Farfa cadeva nel disordine e nella polemica, a S. Salvatore si affermavano consuetudini e regole che apparirono tanto meritevoli da essere additate ad esempio per altri cenobi. Già nel secolo IX gli esempi dei Salvatoriani avevano trovato corrispondenza a Farfa non solo per quanto concerne gli ordinamenti ma persino, su iniziativa dell'abate Siccardo, nella erezione di un tempio dedicato al Salvatore come quello del Latenano e - come qui - anche di una seconda basilica dedicata a S. Pietro.
Nel secolo XII però le vicende del cenobio del Salvatore interessano Farfa ancora più da vicino. È noto infatti che a Farfa in quel periodo la situazione era piuttosto travagliata. I contrasti politici e i riflessi locali delle fazioni avevano indotto l'abate Guido III a dichiararsi pronto a lasciare l'incarico, e i monaci avevano proposto la nomina di Adinolfo, figlio del conte Rinaldo, abate di S. Salvatore dal 1124. Adenulfus è citato nel 1125 nella carica di abate di Farfa, e appare evidente che debba essersi dimesso da S. Salvatore e aver optato per Farfa.
Nel 1194 Celestino III indirizza a Gentileno, nuovo abate di S. Salvatore, una bolla che conferma i possedimenti del monastero. Dobbiamo ricordare per comprendere meglio i fatti che il concordato di Worms aveva dato nuova forza e autorità al papato, il quale chiaramente ora esercita le titoralità in materia di giurisdizione sui monasteri.
Il panorama storico-sociale del tempo deve anche tener conto delle aspirazioni delle strutture civili, i comuni, che mirano a conquistare uno spazio proprio nel quale insediarsi a fianco dei vescovi nei cui confronti il popolo vede l'autorità costituita e la tradizione.
Il movimento monastico e religioso in genere, sta producendo inoltre un fenomeno che è destinato a influenzare il mondo: il francescanesimo. Frate Francesco trascorre numerosi anni nei dintorni di Rieti: Greccio, Fonte Colombo, Poggio Bustone, La Foresta e tanti altri luoghi testimoniano l'energia e l'impegno del santo. Egli non può aver ignorato il monastero del Salvatore, in piena attività e nel massimo splendore. Quali rapporti siano intercorsi tra le due realtà non è al momento attuale documentabile: è improbabile però che si siano ignorate reciprocamente. Si consideri al riguardo che nel 1211 in Assisi contavano su 5 mila francescani, divenuti 20 mila nel 1249 e 150 mila nel 1350.
Negli annali di Onorio III[11] si trovano diverse lettere che si riferiscono al monastero del Letenano. Il 15 agosto 1219 questo pontefice approva la composizione della lite tra Pietro, vescovo di Sabina, e l'abate del Salvatore a proposito del possesso di alcune chiese (S. Andrea, S. Maria di Moiano, S. Giovanni di Toffia e S. Giuliano al Tevere). A Pietro, veseovo di Fermo, Onorio scrive in merito alla sentenza di scomunica contro il priore e il convento di S. Salvatore a Fermo: "ut molestus non sit praesertim quum noscatur ipsum Monasterio S. Salvatori Reatino subesse"[12].
Qnesto Papa ebbe anche a recarsi a Rieti dal 1° al 10 giugno 1219 per operare contro le eresie ariana, albigese e catara. Questa presenza di un gruppo di eretici a Rieti che seguivano la dottrina di Ario fa acquistare validità al citato riferimento dell'esistenza oggi di una "Via Ariana" nel piccolo abitato di Vaccareccia nei pressi di S. Salvatore. Non sembra altresì del tutto improponibile l'ipotesi che un gruppo di questi eretici fosse inviato in domicilio coatto nel remoto borgo per essere tenuto isolato e sotto controllo, e che da questa circostanza scaturisca il nome della via, peraltro breve e stretta.
Un'altra bolla di Onorio III, datata 24 aprile 1221, elenca i beni del Salvatore: vi si trovano indicati i possedimenti del reatino tra i fiumi Salto e Turano, dal rivo Paganico alla pianura di Rieti compresi S. Martino, S. Angelo, Palerofo e Compolanio; nonché le chiese romane di S. Salvatore in Campo e di S. Martino[13], altri monasteri in Sabina, a Rieti, nella Marsica e nelle diocesi di Furcona e di Valva.
Gregorio IX il 2 maggio 1240 comanda all'abate del Salvatore di impartire l'assoluzione dalla scomunica all'abate del monastero di Terra Maggiore (diocesi "Civitatensis") e di astenersi dall'intromettersi ulteriormente nell'amministrazione del monastero stesso di Terra Maggiore[l4]. Innocenzo IV il 15 aprile 1249 da Lione attribuisce a Pietro diacono, cardinale di S. Giorgio al Velabro, autorità "in spiritualis et temporalibus" su un gran numero di monasteri in tutta l'Italia centrale, compreso il nostro S. Salvatore, con pieni poteri, allo scopo di esperire trattative con il Regno di Sicilia. È interessante conoscere alcune delle ampie potestà affidate al cardinale Pietro, il quale tra l'altro poteva assoldare eserciti e con essi entrare nelle regioni pontificie, consacrare e sconsacrare laici e chierici, promettere benefici, contrarre mutui fino a 10 mila marchi d'argento e per 10 mila once d'oro, chiedere aiuto ai cavalieri Templari e agli altri ordini religiosi e persino di consentire a 50 persone di diventare religiosi in difetto di legittimi natali! E siamo nel vivo della lotta con Federico II, ma i pieni poteri del cardinale anche sull'abbazia del Salvatore costituirono un pericoloso precedente.
I rapporti tra i monaci del convento si deteriorarono al punto che in occasione dell'elezione dell'abate Egidio ci furono disordini e allora papa Onorio IV intervenne l' 11 marzo 1286 per ordinare ai monaci di consegnare il convento a Sabatino vescovo di Tivoli. Il problema trovò una soluzione drastica il 20 dicembre 1290 quando Nicolò IV chiamò Filippo da S. Andrea del Soratte, ad assumere l'incarico di abate del Salvatore[l5]. In più il Papa tre giorni dopo nominò il cardinale Matteo d'Acquasparta protettore del monastero, affinché intervenisse per tutelarne i diritti a richiesta dell'abate contro le pretese dei vassalli. Gli abati, in questo periodo, si avvicendarono rapidamente tra contrasti e colpi di mano, finché ottenne l'incarico Bonus Iohannes. Questi, recatosi a Poitiers da Clemente V per perorare la candidatura di Francesco abate di Subiaco, ne ritornò con la propria nomina.
L'abate Bonus Iohannes in realtà aveva comprato l'investitura essendosi obbligato a versare alla Camera Apostolica consistenti contribuzioni in fiorini d'oro e in servitia. Da quel momento sia i possedimenti sia la stessa abbazia passano per diverse mani, attribuiti al miglior offerente. Naturalmente l'investito del beneficio, che si obbligava a versare elevati tributi, doveva poi agire per recuperare l'onere e il depauperamento delle risorse. Lo sfruttamento delle capacità dei vassalli si fece estremamente gravoso e spietato. Si scatenò pertanto la rivolta: il monastero fu assediato, smantellato e incendiato, fu distrutta la biblioteca e le carte dell'archivio, saccheggiato e rubato quanto fu possibile portare via. Il comune di Rieti accolse le popolazioni di quelle terre, che furono annesse al suo territorio. I monaci fuggiti presentarono reclamo al papa, il quale da Poitiers il 4 marzo 1308 indirizzò un breve a Pandolfo de Savelli perché ristabilisse l'ordine e facesse ritirare i soldati del comune di Rieti dai castelli e dalle terre occupate per restituirle al monastero.
La restaurazione non fu pacifica e dopo un apposito concistoro Clemente V rinnovò al comune l'ordine di restituzione del maltolto, incaricando dell'esecuzione della sentenza Napoleone Orsini insieme ai vescovi dei Marsi e di Valva e costituendo "defensor" della badia il re Carlo d.'Angiò[16].
La badia, una volta imperialis, era ormai svuotata e in rovina. I cardinali nipoti che a turno se ne interessarono poterono ricostituirne il patrimonio e ricavarne rendite di ben 4 mila scudi, ma non restaurarne l'importanza e la esemplarità. Così Gregorio XI, da Avignone, il 30 aprile 1373 incarica Pietro, abate del monastero di S. Lorenzo fuori le mura, di recarsi presso il monastero del Salvatore per disporre una riforma. L'abate Pietro riceverà una indennità di missione di 3 fiorini al giorno per tutta la durata delle visite: importante esempio di compenso per incarichi "speciali"[17]!
Gli accadimenti successivi si sono svolti tra le polemiche, le rivendicazioni, le successioni dei commendatari, episodi che trascinano la badia verso una oscura e piatta esistenza fino a quando Alessandro VI le dava il colpo definitivo unendola in perpetuo a Farfa. Facevano sempre gola le sue rendite che entrarono nei bilanci dei Lante dei Barberini dei Farnese, degli Orsini, dei Crescenzi, degli Ottaviani, dei della Rovere.
Si è costretti a pensare che l'atto di morte del monastero di S. Salvatore, redatto il 12 settembre 1629 da Urbano VIII Barberini, sia il risultato di una asperrima lotta protrattasi nei secoli che vide protagonisti da un lato la curia romana e il papato, dall'altro una istituzione monastica orgogliosa e irriducibile che, memore delle sue origini imperiali, aveva tentato con tutti i mezzi possibili di rimanere fedele alle proprie tradizioni. La volontà di distinguersi si manifestò soprattutto con l'adesione testarda alla liturgia franca in luogo della romano-monastica, con il rifiuto ostinato del "dolce" canto gregoriano ed infine con il segno esteriore del copricapo, anche a costo di subire l'irritante e dispregiativo nomignolo di "berrettanti" .
Come monastero benedettino, S. Salvatore non dimostrò particolari simpatie verso la principale sede della regola, l'abbazia di Montecassino, e quando si vide imporre la "Congregazione Cassinese" la sua esistenza volgeva al tramonto e finì per estinguersi prima di obbedire alle nuove regole.
È nostro convincimento che nello scenario del tempo questa abbazia imperiale, affacciata sulla città eterna come un osservatorio privilegiato dell'imperatore, abbia costituito una spina per la curia. E riteniamo altresì che all'origine delle insinuazioni, delle allusioni, dei sottintesi, degli appelli al Papa del partito dei conformisti era la venerazione per l'antipapa santo, il martire Ippolito, e quel gruppetto di ariani in esilio da tenere sotto sorveglianza. Anche i legami con i cenobi di Francia e di Germania venivano considerati un'ulteriore colpa, mentre venivano ignorati l'impegno nello studio e nel lavoro dello scriptorium.
Ecco perché alla fine prevalse l'ostilità dei vescovi di Rieti, di Sabina e d'Abruzzo, bramosi del patrimonio e delle dipendenze, dei vassalli e dei castelli.
L'abbazia fu soppressa, i monaci sciolti e obbligati a rientrare nelle proprie case con una pensione di 40 scudi annui e con l'impegno di indossare l'abito talare soltanto in privato. Nel monastero venne costituito un seminario che fu gestito in parte dalla curia di Rieti e in parte da quella di Sabina. Successivamente il seminario stesso fu trasferito prima a Toffia, poi a Poggio Moiano; in seguito tornò a S. Salvatore, dove cessò di funzionare dopo la seconda guerra mondiale. L'abbazia con quel poco di terreno rimasto intorno fu spogliata e mutilata. In completa rovina, due decenni or sono è entrata in possesso di un privato e nel 1986 è stata acquistata dal comune di Concerviano.[18]
Note:
1. Bibliografia essenziale sull'abbazia di S. Salvatore Maggiore sul Monte Letenano: A. LUBIN, Abbatiarum Italiae brevis notitia, Roma 1693; J. MOBILLON, Annales Ordinis S. Benedicti Occidentalium monachorum Patriarchae, Parigi 1703-1739; F. P. SPERANDIO, Sabina sacra e profana, antica e moderna, Roma 1790; M. MICHAELI, Memorie storiche della città di Rieti e dei paesi circostanti dall'origine all'anno 1560, Rieti 1898; P. DESANCTIS, Notizie storiche del monastero di S. Salvatore Maggiore e del Seminario di Rieti, Rieti 1884; I. SCHUSTER, Il monastero imperiale del Salvatore sul Monte Letenano, in "Archivio Società Romana Storia Patria" 1914; F. PALMEGIANI, Rieti e la regione Sabina, Roma 1932; HISTORICUS, L'imperiale abbazia di Concerviano, "L'Osservatore Romano" 30 ottobre 1957.
2. In occasione di una visita effettuata nell'agosto 1987 abbiamo purtroppo dovuto constatare che i tre tronconi di colonne sono stati trafugati.
3. Anche questa colonna è stata asportata, in questo caso dal comune di Concerviano e osta al sicuro dai razziatori.
4. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, Venezia 1840-1861, vol. LX, p. 67, voce "Fara".
5. Il Regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, ed. Giorgi-Balzani, Roma 1879-1914, II, 43-44.
6. Va notato che l'abbazia è edificata in forma di posto fortificato (torrioni, mura abbastanza alte, corpo unico quadrilatero, ecc.) ma manca di qualsiasi opera di carattere militare per la difesa attiva o passiva (merlature, feritoie, ponti levatoi, postazioni difensive, ecc.); non solo, ma addirittura sul lato esterno delle mura esistono degli accessi a livello di terra per le cavalcature.
7. Anzi le campane erano due: una più grande, di 14 quintali, e l'altra di 10 quintali. I rintocchi del campanone risonavano in tutta la vallata. Le campane furono requisite durante la prima guerra mondiale e fuse per esigenze belliche. Per calarle dalla torre campanaria e per trasportarle furono necessari eccezionali mezzi tecnici.
8. Reg. Farf., cit., II, 72.
9. Le liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, Paris 1890, II, 59.
10. Reg. Farf., cit., II, 15, 17.
11. Regesta Honorii papae III, ed. P. Pressutti, Roma 1888-1895, 3282.
12. Ibidem, 3771.
13. Cfr. M. ARMELLINI Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX ed. a cura di C. Cecchelli, Roma 1942.
14. Reg. Gregorii IX, 5149.
15. Les registrations de Nicolas IV, 3859-61.
16. Reg. Clementis V, a. V, p. 124, n. 5449, e pp. 125-6, n. 5450.
17. Reg. Gregorii IX, a. III, 1732, 1734-5.
18. L'Archeoclub di Roma aveva programmato per l'estate 1986 una serie di iniziative finalizzate alla migliore conoscenza del monumento, che però non sono passate alla fase operativa per difficoltà insorte con l'Amministrazione comunale. Il 17 agosto 1987 sulla spianata davanti all'abbazia, ad iniziativa del sindaco di Concerviano si è svolta una manifestazione per illustrare il monumento e le iniziative in corso per la conservazione, il restauro e la futura utilizzazione.
Nota: Il testo è conforme a quello pubblicato, senza alcuna modifica.
Attualmente quello che resta del Monastero è stato acquistato dal comune di Concerviano, che ne sta procedendo al restauro ed anche tentando una valorizzazione. È possibile contattare il Comune per sapere in quali giorni e orari è possibile visitarlo.
Del poco materiale asportabile che restava, gran parte è stata trafugata successivamente alla stesura del testo. Quando si è diffusa la notizia del restauro, qualche pezzo è stato restituito.
Per ulteriori notizie dall'autore, consultare il testo "La statua di San Balduino"
© 1988 Giuseppe Chisari e Carlo De Paolis
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