Un luogo della Sicilia e della fantasia
Al gentile lettore,
il testo che segue è la prima ricerca, e probabilmente l’unica, che abbia come obiettivo l’antica città di INESSA, per secoli cercata e non ancora individuata con sicurezza.
Giuseppe Chisari - Luglio 2008
NOTA. Il lavoro presentato non è destinato al commercio. L’autore non intende ricavarne alcun utile; allo stesso modo il lavoro può essere utilizzato da chiunque vi abbia interesse, citando la fonte, senza bisogno di autorizzazioni. Le immagini unite al testo sono in massima parte dell’autore. Di quelle prelevate da altre fonti è indicata la provenienza. Gli autori che non gradiscono l’inserimento nel presente lavoro, saranno accontentati immediatamente, a seguito di semplice richiesta.
Esiste un luogo, chiamato POIRA, voce del dialetto siciliano che ha il significato di POGGI, nella Sicilia orientale, al margine della pianura dove scorre il fiume Simeto, versante sud dell’Etna, e qui si immagina sia sorta una città fin dal tempo dei Sicani.
Questo popolo è ritenuto il più antico gruppo omogeneo, storicamente accertato, che sia immigrato in Sicilia proveniente dall’Italia, ma altri pensano proveniente dalle isole dell’Egeo o anche dall’Anatolia, o forse dalle zone del centro dell’Europa.
I Sicani, arrivati in Sicilia prima della guerra di Troia, occuparono la fascia costiera della Sicilia orientale.
Dopo circa due secoli cominciarono ad arrivare altri gruppi provenienti dall’Italia.
Questo nuovo gruppo di persone appartenenti ad una etnia, collegata da legami di sangue di costumi e di linguaggio, aveva attraversato tutta la penisola italiana e di volta in volta, probabilmente a causa del numero, della bellicosità, dell’invadenza o a causa di discordie con i popoli ospitanti, era stata sospinta altrove, con le buone o con le cattive, fino ad essere indotta a varcare il mare e a cercare spazio in Sicilia. Furono chiamati Siculi e a loro volta cacciarono a spallate i Sicani dalla fascia costiera verso l’interno.
Immaginiamo che i Sicani abbiano organizzato, già in epoca preistorica, un insediamento su un rilievo collinare lambito dal fiume Simeto che fu conosciuto come INESSA in lingua sicana.
Successivamente qualcuno modificò il nome in INVESSA, ma forse per errore. A qualche altro venne in mente un altro nome ETNEOSIA.
I Siculi bellicosi e maneschi non tardarono ad affacciarsi dalle parti di Inessa e si insediarono in un luogo vicino, che per la prossimità con il vulcano, si chiamò AITNE o AITNA, alla greca.
In epoca romana, l’abitato di cui stiamo parlando, fu chiamato alla latina, AETNA.
A completare il quadro delle evoluzioni, per qualche decennio il nome AITNA, per comando di GERONE, tiranno di Siracusa, fu attribuito d’autorità a Katane, fino a quando il siculo Ducezio, alla guida della riscossa sicula oppressa dai greci corinti siracusani, riportò gli esuli catanesi greci calcidesi, ospiti della Aitna sul Simeto, nella città di origine e recuperò alle rispettive comunità di provenienza le denominazioni originarie di Katane e di Aitna.
Di città e comunità che cambiano nome, se ne conoscono parecchie, ma pensiamo che siano poche quelle che hanno avuto le vicende sopra raccontate.
Le grandi città antiche, Siracusa, Agrigento, Selinunte, Segesta, sono molto conosciute e sempre più studiate e approfondite.
Le località minori sono esposte all’attenzione del grande pubblico solo in occasione di ritrovamenti archeologici di rilievo e, allora, gli studiosi ne parlano e si attivano per destare l’interesse di curiosi e di addetti ai lavori.
Stavolta non è così, non risultano particolari motivi di interesse, né sono emersi motivi eccezionali per parlare di AITNA o INESSA. Anzi non è neanche chiaro se si stia parlando del medesimo insediamento, perché, chi si è occupato di Aitna, conferma che, in un certo momento, qualcuno ha attribuito alla stessa località il nome di Inessa, o viceversa.
Per completezza bisogna affermare che le denominazioni sono state diverse.
Si parla di Inessa, Invessa, Etneosia, Aitna, Aetna. Non si può escludere che si tratti di errori dei copisti, di distrazioni di amanuensi, di sviste di lettori o di equivoci di epitomatori.
Il punto di partenza della nostra ricerca prende l’avvio da quanto riferiscono i professori Mimmo Chisari e Alfio Ciccia del Distretto Scolastico di Paternò, con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali e dell’Assessorato regionale, i quali, nei sintetici ma completi testi “La Sicilia Preistorica e le zone archeologiche di Paternò” e “Pietralunga”, descrivono luoghi e tempi dell’evoluzione della preistoria e della storia, sul territorio intorno alla città alla quale sono interessati.
Vi si legge che la ricerca di archeologi e storici (Giovanni Rizza, Sebastiano Tusa, e altri) ha portato alla conclusione che i resti archeologici esistenti a Pietralunga – masseria. Poira – Poggio Cocola, siano da identificare con INESSA – AITNA.
Occorre premettere, per non ingenerare fraintendimenti, che la materia di cui ci occupiamo è ancora molto fluida ed incerta.
I pochi dati certi non sono sufficienti a delineare quadri di riferimento probanti. Gli elementi disponibili sono letti in modo differente dagli esperti che contestano acremente ipotesi e conclusioni.
Gli antichi autori riferiscono fatti e leggende, eventi e tradizioni, di cui non è possibile o facile avere riscontri. Le dicerie e le stesse citazioni di avvenimenti possono avere sviluppi ed interpetrazioni assai diversi da quelli riferiti e immaginati. L’evanescenza e l’incertezza delle situazioni di cui si legge, potranno facilmente essere sottoposti a serrate verifiche, alla luce di dati e oggetti rinvenuti in successione di tempi e portare facilmente a conclusioni assai diverse dalle premesse delineate.
Noi non abbiamo certezze e non vogliamo imporne e non riteniamo che qualcuno debba sentirsi danneggiato od offeso dalle ipotesi immaginate nel presente, modesto lavoro di un dilettante. Non abbiamo preparazione specifica e pertanto le note che seguono sono frutto di immaginazione e sono certo influenzate dal sentimento.
Da quanto abbiamo letto e capito, prendendo in mano testi di ogni genere, di cui forniamo un elenco in bibliografia, la Sicilia preistorica è stata oggetto di interesse e di studio in tempi diversi, con metodi e regole proprie di ogni epoca, anche in antico, ma lo studio e l’approfondimento degli elementi raccolti sono tutti di epoca assai recente.
Ovviamente lo studio della preistoria della Sicilia si avvale dei criteri più recenti e spesso avviene che i dati meno recenti vengano riletti e riesaminati alla luce delle nuove conoscenze, portando a conclusioni diverse rispetto alle precedenti.
Esattamente quanto succede nelle indagini di polizia giudiziaria.
La premessa è indispensabile perché il riconoscimento di Inessa da parte di altri studiosi in altre località, è stato da secoli un passaggio obbligato.
L’amico Nino Distefano, solo per citare una persona da molti conosciuta, attento studioso e capace artista, che ha svolto la sua attività a Biancavilla, sul benemerito periodico “Callicari” ha raccontato delle sue ricerche nella biblioteca di Adrano, dove, su un antico manoscritto, ha potuto leggere quanto riferito da precedenti autori, i quali localizzavano Inessa tra gli attuali abitati di Biancavilla e S. Maria di Licodia, sulla base di labili tracce archeologiche.
Altri hanno fatto riferimento a ritrovamenti non documentati né documentabili, perché non più disponibili, oppure carenti di certezze, per indicare altre località da identificare con Inessa.
Sul sito internet della città di Adrano, tra le diverse informazioni relative al Comune, alla storia e all’attività di quel centro veramente popoloso e attivo, si ipotizza anche che l’antica Inessa potesse essere stata ritrovata nei pressi di quell’abitato.
Secondo altri, Inessa sarebbe stata localizzata presso Paternò. Non mancano quelli che hanno trovato le tracce di Inessa a Biancavilla, a Catania, a Centuripe.
Oggi non ci si accontenta più dei si dice e dei ricordi più o meno evanescenti. Sono richieste prove e certezze, documentazioni fotografiche, approfondimenti scientifici, evidenze e dati confrontabili con tutte le altre informazioni storiche e archeologiche disponibili.
La figura n. 3 riproduce un sito archeologico nei pressi di S. Maria di Licodia, la Civita di Licodia, ritenuto il luogo dell’antica Inessa. Le foto pubblicate sul sito internet del comune di S. Maria di Licodia permettono anche di vedere l’opera, molto ben costruita, per la captazione della sorgente che alimentava il grande acquedotto edificato in epoca romana per l’abitato della città di Catania, di cui rimangono tratti limitati di canalizzazione e alcuni archi di sostegno, visibili attualmente sui terreni agricoli.
Da quanto si legge a proposito di Inessa sembra che tale insediamento si sposti, nello spazio della piana del Simeto, ora da una parte e ora da un’altra.
Sull’Enciclopedia Treccani, vol. 31, alla voce Sicilia a partire da pag. 674 sono riferite un’ampia serie di notizie sulle vicende storiche dell’isola e sui popoli che l’abitarono.
Quando si afferma l’identificazione di un’area archeologica con una località nota storicamente occorre esporre il ragionamento seguito per arrivare alla conclusione, in modo che altri possano verificarlo, criticarlo o confermarlo.
Muoviamo il primo passo dalla lettura di quanto gli antichi scrittori ci hanno lasciato a proposito di Inessa e di Aitna.
Le prime notizie scritte su Inessa le ritroviamo leggendo di Falaride, controversa figura di tiranno di Agrigento tra l’anno 536 a. C. e l’anno 508 a.C. (secondo altri tra l’anno 575 e il 535 a. C.), bersaglio di opinioni calunniose, contraddette da apprezzamenti sulle sue capacità strategiche e sulle sue doti di uomo di governo, di generoso politico e di crudele despota. Il personaggio in questione entra nel nostro lavoro perché si tramanda lo stratagemma da lui inventato per saccheggiare il centro abitato di Inessa.
Scrive lo storico Polieno – Stratagemmi di guerra, libro V, cap. 1 – che Teute, sicano re di Inessa aveva una figlia da marito e Falaride mandò ambasciatori per chiederla in sposa. Con gli ambasciatori mandò anche, su cocchi, un gruppo di giovani agrigentini di bell’aspetto, senza barba e in vesti femminili, che dovevano omaggiare la giovane principessa. Entrati nell’abitato, a sorpresa tirarono fuori dalle vesti femminili le armi nascoste e, insieme a un gruppo armato, si impadronirono di Inessa e la saccheggiarono.
Se ne deduce che Inessa, nel VI secolo a. C., già esisteva da qualche tempo, era fiorente (la più opulenta città sicana), tanto da suscitare la cupidigia degli agrigentini, aveva un re ed era un centro di Sicani, raggiungibile da Agrigento con una strada percorribile da cocchi.
Altra iniziativa di Falaride fu invece sventata da Stesicoro quando il tiranno agrigentino, apprezzato capo militare, inventore della falaride, macchina militare che lanciava contemporaneamente numerosi proiettili incendiari, tentò di farsi nominare a capo della città di Imera nei pressi di Palermo. Gli imeresi lo mandarono a chiamare per offrirgli la guida del loro esercito ma nell’assemblea dei cittadini si levò a parlare Stesicoro, non ancora emigrato a Catania.
L’oratore raccontò ai cittadini presenti un famoso apologo di Aristotele, tramandato anche da Orazio – Epistole libro I n. 10 – a proposito di un cavallo, il quale aveva un pascolo dove scorrazzava in piena libertà. Il cavallo aveva litigato con un cervo e aveva chiesto aiuto ad un uomo. L’uomo si dichiarò disposto a liberare il cavallo dal cervo a condizione che il cavallo accettasse la briglia e si assoggettasse a portare l’uomo in groppa. Stesicoro si era reso conto delle mire di Falaride ed era informato della sua fama.
A proposito del poeta Stesicoro, onorato e celebrato a Catania, dove morì ucciso da un brigante, chi scrive è tra i pochi ad aver visto un interessante monumento, adiacente alla Chiesa del Carmine di Catania, sulla nota piazza del Carmine, che viene ritenuto, con buoni argomenti storici ed archeologici, la tomba di Stesicoro.
La sovrapposizione dei siculi sui sicani è l’effetto di ondate successive di migrazioni di gruppi di persone che si mossero, secondo quanto si tramanda, due secoli prima della guerra di Troia – 1400 a. C. - lungo la penisola italiana, spinti dalla pressione delle genti che incontravano, sulle terre che attraversavano.
Sia i sicani sia i siculi sono ritenuti gruppi facenti parte delle popolazioni che si sono mosse dall’Europa centrale e che si sono spostate progressivamente, fino ad arrivare in Sicilia e distanza di alcuni secoli.
I sicani sono stati ritenuti popoli più impegnati nell’agricoltura e nella pastorizia, i siculi sono considerati un’aristocrazia guerriera, combattivi e decisi a conquistare lo spazio per la vita propria e della propria famiglia. Il loro arrivo sulle coste della Sicilia orientale coincide archeologicamente con un’evidente modifica del modo di vivere delle comunità che vi si erano insediate. I nuovi arrivati spingono i gruppi dei vecchi residenti verso l’interno, alla ricerca di altre terre più sicure e difendibili.
Si legge sull’Enciclopedia on-line Wikipedia che il valoroso generale Cromio di Aitna, alla corte di Gelone, allora ancora tiranno di Gela, partecipò nell’anno 493 a. C. alla battaglia contro i siracusani e, ancora al seguito di Gelone, divenuto tiranno di Siracusa, prese parte nell’anno 480 a. C. alla celebre battaglia di Imera nella quale i Cartaginesi furono gravemente sconfitti.
Questo valoroso comandante, da Gelone, subito dopo, è nominato tiranno della città di Aitna e qui rimane per alcuni anni.
Si registra di conseguenza l’esistenza di Aitna, luogo di provenienza di un valoroso comandante di Gelone, che Pindaro, qualche anno dopo (nel 476 a.C.) chiama “fondatore di Aitna”.
Aitna, secondo Strabone, era la città dalla quale si muovevano coloro che volevano fare escursioni verso il vulcano e visitarne le contrade. Ai suoi tempi, le eruzioni che coprivano i campi e i vigneti, dopo poco tempo facevano diventare particolarmente fecondi terreni e vigne e davano luogo ad una particolare qualità di vino, molto apprezzato e gradito. Di conseguenza, quello che a prima vista appariva come un danno, successivamente si manifestava coma un evento positivo. Affermava anche che il bestiame che si nutriva di erba cresciuta sui terreni coperti dalla lava, ingrassava tanto che era necessario cavare il loro sangue perché erano troppo nutriti.
Inessa è presente sui documenti antichi per almeno quattrocento anni e l’archeologo prof. Rizza, nel 1950, ritiene di averla ritrovata nell’area presentata in fig. n.2, tra Poggio Cocola, Monte Castellaccio e masseria Poira. Il prof. Rizza raccolse numerosi frammenti ceramici, che attribuì all’epoca greca e ritenne che l’insediamento ritrovato fosse un abitato ellenizzato.
Le campagne di scavo successive al 1994, guidate dall’archeologo Brian E. McConnell, sul monte Castellaccio hanno evidenziato strutture e hanno recuperato reperti che sono classificati come pertinenti al periodo preistorico (il periodo precedente all’introduzione della scrittura), altri reperti del periodo protostorico e altri ancora del periodo arcaico, dal 600 al 490 a. C.
Sull’area in questione, la vita e la frequentazione, si sarebbero estese per oltre mille e seicento anni e l’archeologo ne ha accuratamente e scientificamente descritto la stratigrafia e registrato le misurazioni dei reperti organici con il metodo del radiocarbonio.
Dagli scavi dell’archeologo Brian McConnell emerge un quadro di frequentazione dell’area archeologica esaminata che si sviluppa appunto dal primo periodo nel quale si ritiene siano arrivati i sicani, almeno fino al periodo romano.
Tra Rocce Acitano e Mongichene, sono state individuate tracce di insediamenti compresi tra l’Età del Bronzo antico (cfr. fig. n.25) e la Tarda Antichità, contemporaneamente si è avuta la conferma degli accertamenti del prof. Rizza per la città di età greca a Poggio Cocola.
Tuttavia ancora nessuno si azzarda a porre una targa di toponomastica su queste tracce di insediamenti emersi dalle viscere del terreno, esaminato con i mezzi tecnici che la scienza oggi mette a disposizione degli studiosi di archeologia e di paleontologia.
La visione del vulcano incombente sull’area in esame permette di apprezzare le considerazioni che indussero alcuni Sicani, terrorizzati dai fenomeni eruttivi e dai terremoti ad abbandonare il territorio e a ritirarsi verso le aree più meridionali dell’isola e verso Agrigento Comportamento raccolto e memorizzato dagli antichi scrittori, che lo hanno tramandato.
Noi teniamo a segnalare che sulle carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare (foglio Paternò al 10000) sono indicate sul territorio in discorso alcune sorgenti, di cui una di portata più cospicua, a conferma delle risorse disponibili, adatte agli insediamenti.
Fig. n.4. Le sorgenti nell’area in esame, evidenziate sulla carta dell’Istituto Geografico Militare
Tutta l’area etnea è ricca di sorgenti, la geologia conferma che le nevi del vulcano, in primavera, allo scioglimento, filtrano attraverso i suoli permeabili e scorrono poi sui suoli argillosi impermeabili per emergere alle quote più basse.
La storia registra una specie di certificato di morte dell’abitato di Inessa, per opera di Timoleonte o Timoleone, il quale intorno al 350 a. C. “cancellò” i Campani che vi abitavano.
Diodoro di Agira scrisse di Inessa, città sicula per lui, quando racconta delle vicende del siculo Ducezio il quale sollevò il suo popolo nella sfortunata rivoluzione diretta a recuperare i territori e il potere che erano loro stati sottratti dai greci siracusani.
Evidentemente Inessa sicana era intrecciata con Aitna sicula e il nome della prima identificava anche la seconda per brevità e comodità degli antichi storici.
Il prof. Giacomo Manganaro, dell’Università di Catania, su un articolo del 1996 relativo ad oggetti archeologici aventi riferimento ai culti delle città greche, indica due oggetti provenienti da Aitna località Poira. Una è una macina da frantoio in pietra lavica, di grandi dimensioni con dedica a Demetra la divinità delle messi e dell’attività agricola, conservata presso una collezione privata, a Paternò, e l’altro è un vasetto che probabilmente conteneva un collirio, come prodotto in Aitna.
Torniamo un poco indietro nel tempo. Numerosi sono gli scrittori che si sono interessati alla storia della Sicilia in ogni tempo. Non pochi sono quelli qualificati, ma non mancano quelli che maggiormente hanno lavorato di fantasia, riportando leggende e fatti favolosi.
Tra i più accreditati è Diodoro di Agira. Da lui, con la conferma di altri storici, sappiamo che il siracusano Gerone I, fratello di Gelone e suo successore, nell’anno 476 a.C., invase Katane, la rinominò Aitna e la ripopolò di siracusani e di nuovi immigrati greci. Volle essere chiamato Gerone Etneo, vi si trasferì e vi morì nel periodo della LXXVIII olimpiade.
Sappiamo anche che la popolazione di Katane, vinta, fu deportata verso un villaggio di Siculi, all’interno, non molto lontano, già esistente e conosciuto, chiamato Aitna, lungo il corso del fiume Simeto. Altri dicono Leonzio o Lentini.
Ebbe così inizio il tempo del predominio di Siracusa, prima sulla Sicilia e poi su buona parte del Mediterraneo.
Gli elementi da sottolineare sono:
Nell’anno 461 a.C. Ducezio si pose e capo dei Siculi, sollevò i catanesi deportati, li guidò al recupero della città dalla quale erano stati cacciati e sconfisse i siracusani occupanti e i nuovi insediati provenienti dal Peloponneso.
La città di Catania riprese il precedente nome (Katane) e i vecchi abitanti greci calcidesi rioccuparono le proprietà che erano stati costretti ad abbandonare quasi quindici anni prima.
Si diffuse nella Sicilia orientale un movimento politico, che mirava a far rientrare nelle zone di origine i gruppi di cittadini esiliati ed espropriati di diritti politici e di proprietà. L’obiettivo di Ducezio era di rimettere i Siculi nelle posizioni politiche ed economiche dalle quali erano stati scacciati dai siracusani negli ultimi anni.
Il periodo di splendore di Ducezio, il quale s’impadronì di Noto, sua città natale, di Mineo, di Morgantina e di Lentini, di Inessa e della nuova Aitna nonché di altri centri, attaccò gli agrigentini e conquistò uno dei loro luoghi fortificati Motio – da non confondere con Motia- e successivamente si scontrò con i siracusani di Bolcone, e li sconfisse nei pressi di Mineo, non ebbe lunga durata.
Nel 458 la sua avventura si concluse con una grave sconfitta, nella località di NOMAI, nei pressi di Licodia Eubea, così Ducezio, abbandonato da amici e sostenitori, si presentò ai siracusani a chiedere perdono e fu esiliato a Corinto.
Da Corinto, dopo alcuni anni di esilio, Ducezio si riscosse, affermò di aver ricevuto un oracolo che gli ordinava di tornare in Sicilia e fondare un città sulla riva del mare Tirreno. Convinse alcune famiglie con le quali riprese il mare, nel tempo dell’LXXXV olimpiade e sbarcò sulla costa tra Messina e Palermo. Qui fu raggiunti dai nostalgici siculi e fondò Calatta, oggi conosciuta come Caronia. Poco dopo Ducezio morì per cause naturali.
Dionigi I, quando riconquista il potere e i territori a sud dell’Etna, conferma a Catania il nome di Aitna. Con questo nome Catania si sviluppa e cresce economicamente e politicamente lasciando significative tracce della sua vita sociale.
Alla morte di Gerone, Catania, libera da siracusani e stranieri greci, tornò in mano agli antichi abitanti, che erano i fondatori greci calcidesi e megaresi provenienti da Naxos. I siracusani erano in piena espansione e molto minacciosi. La città di Catania, per timore di Siracusa, cercò alleanza con Atene.
L’esercito ateniese, guidato da Nicia, Demostene ed Alcibiade, dopo un inizio vittorioso, conquistò, infatti, i territori intorno a Siracusa, sottomise Centuripe, saccheggiò Inessa e Ibla nell’anno 415 a. C., fu sconfitto da Dionigi il Grande, sostenuto dallo spartano Gilippo e dagli armati di Corinto nell’anno 413 a. C.
Dionigi il Grande riprese Catania e il territorio etneo.
La potenza di Siracusa cresce, si scontra con Cartagine alla quale infligge memorabili sconfitte.
Le vittorie riportate, arricchiscono la città che si abbellisce e si rafforza.
A Siracusa arrivano artisti e poeti, pittori e architetti, filosofi e scienziati e i prodotti dei loro studi e delle loro applicazioni sono tramandati nella memoria e nei resti dei monumenti ancora esistenti.
Arriva Platone, c’è Euclide, arriva anche Eschilo, che scrive un’opera teatrale Le donne etnee, oggi perduta.
Le ricchezze conquistate sono in parte offerte agli dei protettori e ne rimane testimonianza a Delo e in altri famosi santuari greci.
I prigionieri apportano mano d’opera gratuita per le opere pubbliche, i templi e per l’agricoltura. Anche la guerra con gli Etruschi riesce vittoriosa e i pirati del Tirreno sono cancellati.
Diversi centri etnei e gran parte del territorio della piana del Simeto furono assegnati da Dionigi agli alleati Campani, - i quali in seguito si fecero chiamare Mamertini perché seguaci del dio Mamers, il Marte dei latini -, in compenso dell’aiuto ricevuto.
I Campani erano soldati mercenari molto apprezzati provenienti dalle regioni del sud Italia, dalla Campania, Sannio, Basilicata e Calabria, e si sparsero per tutta la Sicilia orientale e centrale fino a Messina.
Curiosamente ai nostri tempi, gli abitanti di Milazzo, in dialetto locale, si chiamano tra loro mamertini.
Alcuni secoli dopo il loro arrivo in Sicilia, i Mamertini si scontrarono con i Cartaginesi e allora cercarono l’appoggio dei romani, i quali approfittarono dell’occasione per avviare la seconda guerra punica, che si concluse con la conquista da parte di Roma della Sicilia intera.
I luoghi fortificati di Inessa e di Aitna, in mano ai Mamertini furono organizzati in centri di approvvigionamento e di allevamento di bovini, suini, ovini ed equini.
Nella cartina di fig. 4 si vede che anche in epoca moderna l’allevamento dei cavalli fu impiantato a Pietralunga. Le notevoli risorse del territorio furono adeguatamente sfruttate e l’area si popolò intensamente.
Si può riflettere sul fatto che i sicani rozzi coltivatori e allevatori, i siculi violenti e i campani prepotenti abbiano vissuto insieme su quel territorio, ognuno con la propria lingua, le proprie tradizioni, le proprie leggi e le proprie usanze, da queste terre abbiano tratto sostentamento e utilità economica, ricavandone anche risorse e vantaggi.
Una comunità plurietnica, multilingua e, quasi certamente, con propri ordinamenti, amministratori, comandanti e magistrati.
L’economia del tempo che investiva al massimo nell’agricoltura, - grano, orzo, spelta, legumi e altri prodotti della coltivazione-, aggiunta all’allevamento di bovini, suini, ovini ed equini portava benessere e disponibilità di denaro.
Non deve essere sottovalutato l’apporto delle mercedi di guerra, i soldati mercenari volevano paghe in denaro e gli studiosi pongono l’accento che la rilevante monetazione di Siracusa era conseguenza della necessità di fare fronte alle retribuzioni dei militari arruolati, e del risultato dei saccheggi dei luoghi dove effettuavano le scorrerie.
Non è sottovalutato l’apporto all’economia del ricavato dei compensi ricavati delle località, alle quali offrivano manodopera e braccia specializzate.
Dai reperti archeologici raccolti, frammenti di grandi contenitori per la conservazione di derrate alimentari, recipienti di rilevante capacità ornati e decorati, attrezzi, armi e monete, si deduce che la gente che abitò queste terre non era né deperita, né indigente, né sprovvista di mezzi tecnici ed economici sufficienti alle necessità quotidiane.
Per quanto riguarda la lingua che si parlava in Inessa e in Aitna, gli studi finora sviluppati evidenziano alcuni segnali. Sono riportati su alcuni saggi, ovviamente nei termini più generali della lingua dei sicani e della lingua dei siculi e sono pubblicati sul primo volume della “Storia della Sicilia” ed. del Sole 1979. Si tratta di lavori di specialisti firmati da Riccardo Ambrosini, Giuseppe Voza, Lorenzo Braccesi, David Asheri, introdotti da Rosario Romeo. Altri lavori sono firmati da Roland Martin, Paola Pelagatti e da altri importanti studiosi.
Per quanto riguarda la lingua, premesso che i segnali sono molto labili e su questi gli esperti si accapigliano facendo leva, per sostenere le proprie tesi, sugli elementi più specialistici e sugli argomenti più particolari, è in ogni caso possibile sintetizzare qualche concetto a livello generico e con riferimento ai reperti archeologici visibili nei musei.
Un’ovvietà di principio farebbe affermare che un gruppo di sicani si dovrebbe esprimere in lingua sicana, un gruppo di siculi si dovrebbe esprimere in lingua sicula e un gruppo di greci si dovrebbe esprimere in lingua greca.
Il problema sorge quando, i segni che si sono trovati, tracciati su vasi, su piatti, su lastre di calcare e di basalto, e su monete, in realtà sono tutti segni dell’alfabeto greco e tutti ritenuti prodotti tra il VI e il V secolo a. C.
Si pensa che si tratti di testi non greci perché non sono traducibili con il vocabolario greco.
Prima di tutto si è osservato che il corso degli scritti si sviluppa quasi sempre da destra verso sinistra (oggi noi leggiamo e scriviamo da sinistra verso destra), poi che sono privi di separazione tra le parole e di segni di interpunzione che permettano di identificare le diverse frasi. Ancora, alcuni dei termini utilizzati non fanno parte del lessico greco, infine, il senso del contenuto, che è interpretato, più che tradotto, sarebbe il risultato di una parlata che era intesa, da chi scriveva, facendo più affidamento al senso del discorso che ai significati letterali dei termini.
Infine, gli specialisti riconoscono le somiglianze tra i termini di alcuni di tali documenti epigrafici con i termini di altre lingue, usati in altri luoghi. Sono riconosciute le parti di parole che si ritrovano nella lingua osca, nella lingua illirica, nelle lingue indo- europee della penisola balcanica e del latino antico.
Si sono riconosciuti i nomi che erano in uso ai gruppi locali, sicani e siculi, si riconoscono parti di parole riconducibili a linguaggi di altri popoli.
Prima dell’arrivo dei greci in Sicilia, sicani e siculi, che parlavano un loro linguaggio, questo è certo, non sapevano scrivere, non usavano lasciare tracce scritte di quanto avveniva e i fatti avvenuti in precedenza erano tramandati oralmente, affidati alla memoria di chi ascoltava.
Perché si è in grado di affermare che sicani e siculi avevano una loro lingua.
La ragione sulla quale si fonda l’affermazione è essenzialmente costituita dalla constatazione che il greco utilizzato per lasciare traccia scritta di un evento dei sicani e dei siculi è diverso da quello utilizzato dai greci che vivevano in Sicilia per registrare i fatti delle loro comunità.
Tra il materiale fin qui raccolto dagli archeologi, un testo rinvenuto negli scavi di una località nei pressi di Montagna di Marzo, nel territorio di Gela, è ritenuto in lingua sicana.
Una gran parte di epigrafi in probabile lingua sicula sono state rinvenute a Licodia Eubea.
Va in ogni caso ascritto al merito di uno studioso locale, una di quelle persone che si dedicano spinte da motivi del tutto soggettivi ad approfondire con pignola attenzione ai particolari e alle minuzie per dare conto al lettore e per mettere in condizione anche il poco esperto osservatore di rendersi conto del tema trattato e delle difficoltà del lavoro dello studioso specialista.
Il prof. Sebastiano Sciorto ha affrontato la divulgazione del materiale archeologico nel libro “LICODIA EUBEA e le pietre scritte”.
La passione che il prof. Sciorto dedica al tema del suo interessante lavoro, facendo uscire questo argomento dal recinto delle discussioni riservate agli specialisti, nel quale è di regola confinato, è veramente ammirevole.
L’errore che spesso commettono gli studiosi è quello di pensare che il risultato del loro impegno non interessi altre persone, estranee al loro campo di studi. Gli studiosi dovrebbero dedicare più tempo e attenzione alla divulgazione degli studi e dei risultati del loro impegno lavorativo.
Appare evidente che la scrittura si svolge da destra verso sinistra e potrebbe significare “ Adiomis figlio di Raroio”
Le “pietre scritte” provenienti da questo territorio sono pubblicate e studiate dagli specialisti. Il prof. Sebastiano Sciorto ha riassunto lo stato dell’arte nel suo accurato lavoro, mettendo a confronto i vari studi e le diverse ipotesi di interpretazione. Sono riferite le circostanze del ritrovamento, la localizzazione del reperto, le informazioni sulle dimensioni e sul materiale su cui si legge il testo e ogni informazione utile alla completa conoscenza del documento.
Gran parte del materiale proviene da una necropoli ritenuta sicula, che si fa risalire almeno al VII sec. a. C.
Una delle epigrafi, in primo momento fu ritenuta in lingua sicana, ma successivamente si ritenne di considerarla di lingua sicula, a conferma delle incertezze e delle oscillazioni degli studiosi nelle valutazioni dei materiali esaminati. Altri reperti sono datati come pertinenti ad epoche successive, e cioè al periodo greco e al periodo romano.
La pietra che contiene l’iscrizione, scoperta nel 1934, fu studiata dal prof. Ribezzo, che la ritenne in primo tempo come sicano-italica.
Appare evidente la scrittura del testo in spirale e il cui significato potrebbe essere “Nenda Purenos (oppure Eubenos), a causa della guerra in Burena, rase al suolo l’acropoli e attaccò cinque villaggi”
Un altro reperto da Centuripe è incluso nei testi di lingua sicula. Si tratta di un contenitore utilizzato per bere liquidi, un guttus, meglio definito askos, oggi esposto nel museo di Karlruhe (Germania).
Il vaso fu trovato in una tomba a Centuripe da un agricoltore probabilmente nel 1824, il quale lo utilizzò per le necessità familiari della sua modesta abitazione, nei pressi della sorgente Fontanelle.
Della località dove si trovava la tomba nulla è detto, ma non si può fare a meno di ricordare la prossimità alla località della nostra ricerca..
L’altezza del vaso è di cm. 14 e il diametro massimo di cm. 25. La scrittura è in lettere greche arcaiche, con termini del dialetto calcidesi, il dialetto dei greci fondatori di Katane, senza separazione tra le parole e si sviluppa in senso “bustrofedico”, da destra verso sinistra.
Tradizionalmente si assegna all’anno 500 a. C.
Secondo il prof. Giacomo Manganaro, dell’Università di Catania, che l’ha pubblicata in Archeologia Classica Roma 1961, la sua interpetrazioni è la seguente“ NUNU STE(N)TIMEI MARU STAINAM – HEMITON ESTI DUROM – NANEPOS, ((DUROM)) HEMITOM ESTI VELHOM, NED EMPONITANTOM EREDES VIINO BATO ME”.
La traduzione:” A Nono Stentimi magistrato il vaso – per metà è un dono di Nanepos – per metà è proprietà; non riempiano di vino gli eredi al colmo me”.
Altre tre traduzioni alternative sono pubblicate da altri studiosi.
Occorre aggiungere che l’attenzione e l’interesse degli studiosi verso questo tipo di reperti, si è diffuso in epoca recente.
La lettura del lavoro del principe di Biscari, Ignazio Paternò Castello, “Viaggio per le Antichità della Sicilia”, osservatore dei resti archeologici esistenti ai suoi tempi e collezionista di reperti archeologici raccolti nel museo del suo splendido palazzo di Catania, non riporta alcuna traccia di iscrizioni precedenti all’epoca greca.
L’ingresso di Timoleonte di Corinto sulla scena politica e militare della Sicilia, secondo gli studiosi, produsse un notevole effetto politico.
Questo personaggio fu scelto dai suoi concittadini, quale comandante di un gruppo di armati (circa un migliaio) inviato in aiuto degli abitanti di Lentini, i quali avevano mandato messaggeri guidati da un oratore, all’epoca famoso ma il cui nome si è tramandato nelle moderne aule scolastiche, noto come Gorgia da Lentini.
Il problema che i Lentinesi sentivano come grave, era costituito dal diffondersi in Sicilia delle tirannie.
In numerosi centri della Sicilia orientale si andavano imponendo forme di governo autoritarie, che personaggi di volontà più agguerrita riuscivano ad imporre ai concittadini, facendo pesare le proprie risorse economiche o sfruttando il disinteresse dei molti ai problemi della comunità.
Non va sottovalutato il retaggio dei sicani, ancora presenti sul territorio, per tradizione orientati all’accettazione del comando dell’uomo forte, re o condottiero che fosse.
Sappiamo che a Catania comandava un certo Mamerco, a Centuripe un certo Simico, il quale fu convinto da Pitagora a lasciare il potere, ad Agira regnava Agiri, a Siracusa c’erano i discendenti di Dionisio e le lotte per conquistare questa grande comunità erano feroci, con l’intervento interessato delle potenze esterne come i Cartaginesi.
Tutto questo turbinio non passava senza effetti sopra le teste di chi abitava ad Inessa e ad Aitna, proprio al centro delle popolazioni coinvolte.
Timoleonte con i suoi armati e poche navi (dieci galee) arrivò a Reggio nell’anno 343 a. C. e qui trovò venti galee cartaginesi a sbarrare il percorso. Con un gioco di astuzia sfugge al blocco e prende terra a Tauromenio dove era atteso dal signore della città, Andromaco, suo sostenitore.
Andromaco era considerato il migliore dei principi di Sicilia ed ebbe un figlio, di nome Timeo, celebre storico dell’epoca, autore di notissime opere sugli eventi della Sicilia.
Il programma di Timoleonte, diretto a restaurare il regime repubblicano e quindi il governo popolare nei centri siciliani, prende il via in modo casuale, quando viene a sapere che in un piccolo centro, Adrano, sull’altro versante dell’Etna, un piccolo gruppo di suoi sostenitori lo cerca.
Nel locale, interessantissimo, piccolo museo archeologico, ricco di reperti e di informazioni, sono esposti i materiali raccolti negli ultimi decenni, nei vari siti dei dintorni, identificati dagli studiosi, a cominciare dall’epoca preistorica.
Sono esposti i famosi bronzi del ripostiglio del Mendolito e una delle poche iscrizioni in lingua sicula (meno di dieci in tutto) riportata su un sasso lavico facente parte delle mura di questo arcaico insediamento etneo. Su questa iscrizione c’è un “teuto” interpetrato come “popolo” ma Riccardo Ambrosini, a pag. 47 del saggio “L’elemento indigeno” pubblicato sulla Storia della Sicilia vol. I, ed. del Sole, segnala che “Teùtos” è anche un nome sicano.
Sono esposti numerosi vasi provenienti da sepolture e importanti reperti costituiti da oggetti e attrezzi di uso quotidiano anche in ossidiana.
La storia registra che Dionisio il vecchio, nell’anno 401 a. C. fonda Adranon e vi trasferisce gli abitanti di Piakos. In realtà una comunità abitava già in quel luogo, intorno al sito del tempio del dio Adrano, un’antica divinità alla quale si rivolgevano i siculi che abitavano la città del Mendolito di cui è ignoto il vero nome, città già vecchia ai tempi di Dionisio. Dionisio organizzò e ingrandì il nuovo abitato, che divenne un centro importante ed economicamente potente, tanto da poter battere monete con l’indicazione della città emittente.
Uno zoologo biologo, il prof. G. Galvagni, nella prima metà del 1800 ha scritto Fauna Etnea e, tra l’altro si è occupato dei cani dell’Etna, i noti cirnechi. Il Galvagni riferisce di una sepoltura rinvenuta al suo tempo nella località di Pietralunga, presso Paternò, nella quale fu ritrovato lo scheletro di un cane. Esaminato, il reperto fu ritenuto appartenente ad un cane cirneco e risalente al 1400 a. C.
Il reperto, secondo lo studioso, sarebbe stato affidato al museo Kircher di Roma, oggi confluito nel Museo Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini, ma nonostante le ricerche di chi scrive e le insistenze presso gli archeologi che lavorano attualmente nella struttura del museo, notevole e interessante in ogni sezione, in particolare quella che si occupa di paleontologia, il reperto non è stato rinvenuto.
Questa razza di cani che nella zona sono molto diffusi e apprezzati, sono ritenuti fin dall’antichità particolarmente allevati nell’area etnea per le loro caratteristiche di animali utili alla caccia sul tipico territorio vulcanico.
Gli antichi scrittori hanno tramandato la notizia dei mille cani posti a guardia del tempio del dio Adrano che scortavano i visitatori del luogo sacro, proteggendoli se ritenuti puri e sinceri, cacciandoli e assalendoli se ritenuti infidi e male intenzionati. Numerose monete sono esposte nei musei, in particolare in quello di Adrano, dove si vede sul recto la testa di un guerriero con elmo corinzio e cimiero e sul verso il cane cirneco.
In Adrano esisteva il tempio dell’omonimo dio, onorato in tutta la regione.
Il valore politico dell’occasione non sfugge al comandante greco, così l’esercito di Timoleonte, milleduecento soldati, si avvia verso Adrano. Lungo il cammino viene a sapere che un esercito di cinquemila siracusani, sostenitori di Iceta e dei cartaginesi, si muove verso lo stesso obiettivo.
I siracusani arrivano presso Adrano e si fermano per ristorarsi. I corinti si affrettano e, invece di fermarsi a rifocillarsi, assaltano di sorpresa. L’attacco riesce benissimo, i siracusani fuggono sconfitti e da questo episodio comincia l’epopea di Timoleonte.
Per Timoleonte la vittoria di Adrano ha effetti straordinari, i centri della zona gli si stringono intorno,
Una mossa politica magistrale fa nascere la Symmakia, un patto al quale qualunque città poteva aderire senza condizioni, se desiderava liberarsi della tirannia e dal quale si poteva sciogliere in qualunque momento.
Aitna entra nella simmachia, forse intorno all’anno 345 a. C..
Si ritrovano, e sono esposte nei musei, numerose monete denominate “della simmachia”, senza indicazione della città emittente e con i tipi, i segni tipici di Adrano.
Mamerco da Catania offre alleanza a Timoleonte e Dionisio a Siracusa dichiara di volersi arrendere.
A Siracusa, in quel momento la situazione è piuttosto confusa: i cartaginesi occupano il porto, Dionigi il giovane, erede del vecchio, è trincerato nella cittadella e la città è nelle mani di Iceta che vuole diventare il nuovo tiranno della città con l’aiuto dei punici.
Timoleonte entra nella cittadella di Siracusa e costringe Dionisio il giovane all’esilio in Corinto, dove morì in miseria e disonore.
L’avventura di Timoleonte a Siracusa era ancora in bilico, avendo di fronte i cartaginesi di Magone e i siracusani di Iceta.
Gli storici hanno registrato le incredibili vicende che portarono alla felice conclusione delle imprese di Timoleonte e della normalizzazione della situazione in Siracusa.
Magone diffidava dei siracusani e in occasione di un tentativo di tagliare i rifornimenti che arrivavano da Catania ai corinti, si lasciò convincere a correre con Iceta a bloccare Catania. L’allontanamento dei siracusani e dei cartaginesi non sfuggì ai corinti, i quali assalirono e saccheggiarono il campo nemico. Magone e Iceta, avvertiti, tornarono di corsa ma non salvarono le riserve. Magone decise di abbandonare la guerra e tornare a Cartagine. Qui, fu processato e condannato ma si uccise prima dell’esecuzione.
Iceta fu attaccato nelle campagne intorno a Lentini e sconfitto.
Il progetto politico di Timoleonte si espande a macchia d’olio sostenuto dal clamore delle sue vittorie militari.
I cartaginesi preparano la rivincita. Mettono nelle mani di due grandi generali, Asdrubale ed Amilcare, un’armata di settantamila uomini, secondo Plutarco, e sbarcano a capo Lilibeo, presso Trapani, con l’incarico di cacciare i greci dalla Sicilia. Le città greche sono nel terrore, ma Timoleonte riunisce una squadra di settemila soldati e si dirige verso Selinunte.
Nei pressi di Agrigento un migliaio di soldati si rifiutano di proseguire a causa della disparità di forze con il nemico e Timoleonte li lasciò partire con un salvacondotto per Siracusa.
Con il resto dei soldati arrivò al fiume Crimiso, oggi Belice, e qui si accampò. Il racconto della disfatta dei cartaginesi (è l’anno 344 a. C.) ha il sapore della favola, ma tale è la conclusione dell’avventura dei punici.
I tiranni delle città siciliane, da Catania (Mamerco) a Messina (Ippone), da Lentini (Iceta), a Centuripe (Nicodemos) furono spazzati via. Da Agira fuggì Apollonio.
In Aitna, intorno all’anno 340 a. C., furono spenti i Campani.
Timoleonte aveva avuto, ovviamente, importanti risorse economiche alla partenza da Corinto. Il suo argento, sull’onda delle azioni militari vittoriose, conquista l’economia dell’area della Sicilia orientale.
Lo studioso R. Ross Holloway scrive su “Archeologia della Sicilia Antica”, pag. 185, che un “tesoretto”, rinvenuto nel XVIII secolo conteneva ben 7400 monete d’argento di Corinto, con l’immagine del cavallo alato, il pegaso. Si tratta dello statere d’argento di Corinto. Il pegaso è considerato la moneta più diffusa in Sicilia e ne vengono ritrovate in gran numero ancora attualmente.
La moneta come mezzo di scambio in luogo del baratto, secondo gli storici, nacque intorno al VII sec. a. C., tra i Greci dell’Asia Minore o tra i loro vicino della terraferma, i Lidi.
In precedenza, il materiale utilizzato nelle compravendite erano lingotti di bronzo contrassegnati da qualcuno che ne garantiva peso e qualità.
I lingotti acquisiti da chi vendeva grano, animali, ossidiana, vasi, erano custoditi nei templi e in ogni caso nei centri di culto.
Il tesoro del Mendolito era probabilmente il deposito di qualcuno che viveva nel sito di Adranon.
Ross Halloway conferma che la coniazione di monete, in Sicilia, sfruttò materiale già coniato altrove, anche perché in Sicilia mancava del tutto la materia prima, il metallo che doveva essere importato da altri luoghi. Il bronzo, lega di rame e stagno, era il prodotto di commercio con l’Italia e l’Europa del nord.
L’argento e l’oro venivano dalla Grecia e dall’Europa Centrale.
Nella parte in alto a sinistra della figura 12 non dovrebbe essere difficile individuare l’indicazione topografica della Strada delle valanghe. Si tratta della denominazione locale, probabilmente corruzione del termine “calanchi”, di un’antica viabilità che collegava e ancora oggi collega Agrigento a Catania. Ai tempi di Falaride era percorribile con i cocchi, un’autostrada.
Questo percorso dall’antichità è stato utilizzato per gli spostamenti dalla parte sud dell’isola verso la parte est, e viceversa, sia per motivi commerciali sia militari.
È assolutamente improprio pensare che alla base della denominazione ci sia un qualche motivo di carattere geologico che caratterizzi questo tracciato stradale rendendolo pericoloso o, in ogni caso, esposto a fenomeni di instabilità del terreno di particolare rilevanza e significato. Tali fenomeni, per fortuna, non sono usuali, sul territorio siciliano, se non nella misura comune a tutti i terreni di natura argillosa esposti agli eventi atmosferici di piogge torrenziali. Né si può pensare che esista, nel centro della piana di Catania, un luogo dove le precipitazioni nevose siano tali da formare consistenti accumuli a rischio di sciatori incauti e appassionati del fuori-pista.
La fantasia popolare delle lunghe sere sprovviste di diversivi e distrazioni ha alimentato la leggenda di una località dove era possibile impantanarsi in fanghiglia argillosa da cui non era facile uscire e la fantasia si è tramandata ai toponimi. La fantasia moderna potrebbe installare lungo la strada moderna paracarri naturali come le palle di pietra di cui abbonda il corso del fiume Simeto.
Diodoro, notissimo storico nato in Agira (EN) si pensa intorno all’anno 90 avanti Cristo e morto forse nell’anno 20 avanti Cristo, visse a Roma, viaggiò in Egitto e lasciò un’opera “Biblioteca Storica”, in 40 libri, nella quale racconta le vicende storiche dei secoli anteriori alla sua esistenza in Roma, in Grecia, in Sicilia. Ovviamente ha raccolto e tramandato quanto altri scrittori a lui precedenti hanno lasciato, Timeo, Filisto (ca. 430- 356) e altri.
Diodoro, sulle vicende di Aitna e sui rapporti degli abitanti di questo luogo con Siracusa e con Dionigi, scende in diversi particolari. Racconta che Dionigi non era particolarmente benvisto nella sua Siracusa. Diversi oppositori tra il popolo lo contrastavano e tentarono di cacciarlo. Erano quasi riusciti a sconfiggerlo e a mandarlo in esilio, ma Dionigi richiamò i suoi alleati (i Campani di Aitna, tra cui, in particolare, circa mille duecento cavalieri), riuscì a battere gli avversari e a recuperare la Siracusa. La sua gratitudine verso chi lo aveva rimesso al potere fu concreta e appropriata. I Campani ebbero libertà di fare tutto quello che volevano e arrivarono ad impadronirsi anche di Messina. Se l’informazione di Diodoro è corretta (XIV 3,4,5), l’esistenza di milleduecento cavalieri in Aitna, oltre agli altri soldati armati, significa che, nella zona di Aitna vivevano non meno di trentamila abitanti con cavalli e altri animali e le necessarie risorse alimentari.
L’esame della topografia in fig. 3, confermata dalle prove ottenute dall’archeologia, induce l’ipotesi che nel territorio oggi noto come Pietralunga, masseria Poira, Poggio Cocola e Monte Castellaccio erano insediati i centri abitati noti come Aitna e Inessa e l’ampiezza dell’area occupata rende plausibile l’ipotesi.
Lo confermano gli archeologi che vi hanno lavorato, il prof. Rizza dell’Università di Catania negli anni 1950, il prof. Brian E. Mc Connell dell’Università di Princetown, la dr.ssa Branciforti della Sopr. BB.AA.CC. e altri dell’Archeoclub di Paternò, oltre al gruppo del 23° Distretto scolastico, negli anni successivi al 1991.
Nel citato volume “Pietralunga” si ritrovano preziose informazioni sul lavoro degli archeologi e su quello degli altri numerosi studiosi che vi prendono parte tra cui biologi, tecnici, fotografi.
Nell’area del versante sud dell’Etna esistevano, e sono stati ritrovati nel corso di indagini archeologiche che si sono succedute nei secoli, diversi centri urbanizzati, villaggi e insediamenti più o meno grandi, i quali hanno lasciato tracce più o meno rilevanti.
Citiamo Centuripe, Adrano, Mendolito, Hybla Geleatis (Paternò), Inessa, Lentini, ecc.
Fig. n. 13. Il profilo dell’abitato di Centuripe ripreso dal piano di Poggio Cocola.
Nel leggere il poderoso volume Memorie Storiche di Centuripe di Filippo Ansaldi, il cui tomo primo fu pubblicato a Catania nel 1871 e ripubblicato da Prospero Cacia presso la casa editrice Edigraf nel 1981, in edizione completa, il problema della localizzazione di Inessa viene affrontato con ricchezza di argomenti, ma ancora sul piano letterario, citando abbondantemente gli antichi autori.
A pag. 48, l’identificazione con i resti allora conosciuti della località Poira, è nettamente affermata.
Si riportano i nomi dell’insediamento: Inessa, Invessa, Etneosia, e anche Aitna o Aetna.
Propinquum Centuripis est oppidulum Aetnae (Strabone, Geografia, lib.6).
Nei pressi di Centuripe c’è la cittadina di Etna.
Merita di essere sottolineato che i governanti di Centuripe inviarono messi ai cittadini di Lanuvio, cittadina nei pressi di Roma, per rinnovare il patto di amicizia e di alleanza, già stipulato in precedenza, in memoria dei legami tra i due popoli. Esiste un frammento di marmo inciso in caratteri greci con termini dorici, che contiene una buona parte del testo di quel patto, rinnovato intorno al II secolo a. C. Il patto si richiama alla comune parentela tra le due comunità, che dava diritto ai cittadini di legarsi in matrimonio e al diritto di reciproca ospitalità. Sono elencati i nomi dei rappresentanti di Centuripe e di Lanuvio che all’epoca sottoscrissero il trattato.
Non può essere sottovalutato il fatto che in quei tempi, una cittadina come Centuripe, abitata da sicani e da siculi, si preoccupasse di inviare rappresentanti ufficiali a Lanuvio, nelle vicinanze della grande Roma, già centro politico e militare di non poco nome, per rinnovare un antico trattato di amicizia e di mutuo aiuto, ricevendone apprezzamento e conferma.
Va ricordato che Centuripe da secoli era un centro politico rilevante per la zona e per l’intera Sicilia.
Viene da Centuripe una eccezionale produzione di vasi, decorati in colori vivaci, ritrovati nei secoli scorsi nelle necropoli intorno all’abitato e oggi vanto di numerosi musei nel mondo. Il principe di Biscari li riteneva assai più belli dei vasi etruschi e ne conservava alcuni nella sua raccolta. Un ricca galleria di foto di questi vasi è visibile, oltre che nel locale museo archeologica, sulle immagini del sito internet del Comune di Centuripe
La storia di questo centro registra, tra i tanti, un episodio che ha il profumo dell’attualità.
Si tenne a Centuripe, all’epoca greca, dopo l’arrivo di Timoleonte, una conferenza politica alla quale parteciparono i deputati di numerose città siciliane.
L’ambasciatore di Agrigento era Gellia, l’uomo più ricco e rappresentativo di quella comunità. Quando Gellia si alzò a parlare, i centuripini si misero a ridere, commentando criticamente la poca statura di Gellia e la sua figura poco aggraziata. Gellia si accorse del comportamento dell’assemblea e accettando lo scherno ribatté dicendo che la sua città usava inviare ambasciatori di bell’aspetto e di imponente statura alle grandi repubbliche, mentre inviava uomini piccoli presso le repubbliche modeste.
Fig.n. 14. La piana del Simeto in secondo piano, e, in primo piano, l’area oggi conosciuta come masseria Poira e Poggio Cocola, con i materiali portati in superficie dai lavori agricoli, dove probabilmente sorgevano gli abitati di Aitna e Inessa.
Sulla superficie di questo terreno sono stati raccolti dagli archeologi che vi hanno lavorato, grandi frammenti di dolii, anfore, contenitori piccoli e grandi, mattoni da focolare e altro, frantumati nei saccheggi, dal tempo e dall’attività agricola.
Si tratta di grandi frammenti ricoperti di polvere e di terra, sporchi e poco appariscenti. Questo materiale, macinato dalle moderne macchine agrarie, aratri, frese e vomeri meccanici che sollevano dal terreno profondo – anche 70, 80 centimetri – materiale fittile da secoli ricoperto e conservato - gli archeologi usano il termine sigillato- negli strati più profondi, sono riportati in superficie dall’azione meccanica e violenta delle macchine.
Lo studio di questo materiale permette di collocare nel tempo i manufatti e di incardinare nell’evoluzione sociale e culturale le genti che li hanno prodotti, cercati anche altrove, utilizzati per la loro utilità e comodità o anche per la loro estetica o anche come segno di distinzione nel gruppo sociale.
Sicuramente questi frammenti, nella loro attuale collocazione, non consentono di identificare gli strati archeologici, in pratica le pagine del grande libro dove, dal tempo, sono collocati i fatti e gli avvenimenti. Purtroppo lo sconvolgimento delle pagine, dovuto alle lavorazioni meccaniche del suolo agrario, non consente la corretta lettura da parte degli studiosi, la loro collocazione nel tempo, l’identificazione delle fasi storiche e dell’evoluzione sociale di chi ha abitato quei luoghi.
Fig. n. 15, frammenti del collo di in gran dolio, la cui imboccatura misura circa 90 cm e la cui dimensione in corrispondenza poteva superare 150 cm di altezza. Poteva servire, interrato per conservare liquidi (vino, olio, acqua), oppure in magazzino per conservare cereali al riparo di roditori e altri animali, nel museo di Adrano.
Di Catania, al tempo in cui si chiamò Aitna, oltre al nome riportato in diversi documenti antichi e su alcune monete ritrovate in tempi diversi nei centri etnei, non rimane quasi nulla.
Gli studiosi di numismatica considerano la moneta del “maestro del sileno” di Aitna un “unicum” di eccezionale livello artistico, del quale esaltano l’estetica e il realismo. La testa del Sileno è disegnata con vera abilità ed emerge dal fondale con vigore. Le orecchie a punta caratterizzano l’immagine. Uno scarabeo sulla parte inferiore. Sul verso dell’oggetto è raffigurato Zeus Etneo seduto su uno sgabello assai elegante coperto da una pelle di pantera. Nella mano destra tiene un mazzo di fulmini, nella mano sinistra delle spighe. In basso è visibile un uccello (aquila?) appollaiata su un pino dell’Etna, che un tempo ricopriva tutti i fianchi della montagna. La dicitura “Aitnaion” dichiara l’appartenenza del conio agli Etnei.
Fig. n. 16. Moneta di Aitna da “Sikanie” ed. Scheiwiller
Le monete, prodotte nel periodo dell’amministrazione siracusana di Gerone della città di Katane, esposte presso il Museo Archeologico di Siracusa, nella ricca collezione numismatica, copie di alcune delle quali si trovano oggi in vendita su E Bay, sono ritenute di eccezionale livello artistico,
La moneta della fig.12 è l’esempio più noto della bravura dei coniatori di Catania. La moneta, unico esemplare, un tetradramma in argento, è opera del maestro del Sileno e raffigura la testa barbuta, coronata di tralci, di un Sileno, seguace di Dioniso, con le orecchie a punta. Oggi è custodita presso la Biblioteca reale del Belgio a Bruxelles.
È chiamata la monna Lisa delle monete, su un articolo pubblicato in occasione dell’esposizione della moneta da parte del Museo di Gerusalemme nel 2004.
L’iconografia monetale a Catania usa a volte l’immagine di una testa femminile, altre volte un toro con testa umana.
Fig. n. 17.
Dopo la morte di Dionigi, Catania riprende il suo antico nome e lo conserva nei secoli successivi.
Fig. n. 18 Serie di monete di Catania
Fig. n. 19 Serie di monete di Catania
L’immagine con la testa del Sileno fu utilizzata anche per monete di altre comunità. Evidentemente altre città apprezzarono il coniatore di questa opera d’arte e ne desiderarono un esemplare anche per il loro paese.
Fig. n. 20 da Ebay
Della Aitna originaria, quella sul Simeto, oltre alle ipotesi dei ricercatori, non ci rimane quasi nulla.
Di questo insediamento sono rimaste nelle fonti letterarie alcune sommarie indicazioni topografiche e qualche riferimento circa l’esistenza di edifici pubblici – un foro – e, come è ovvio, di edifici di culto – un tempio dedicato a Ercole voluto da Gerone di Siracusa, un altro tempio dedicato a Cerere su iniziativa di Dionisio, – ma, nelle località ipotizzate e ritenute riferibili a questo centro abitato, non sono state finora evidenziate negli scavi strutture di rilievo, né residui di monumenti o templi che permettano di identificare la località e renderla sicuramente riconoscibile come tale.
L’assenza di edifici riconoscibili come facenti parte dell’antica Aitna e Inessa, è il principale ostacolo al riconoscimento e alla localizzazione certa di quegli insediamenti.
In località Poira sono ritrovati resti di abitazioni, fondazioni di capanne e di fabbricati, ma niente che corrisponda a quanto gli antichi scrittori hanno registrato come edifici sacri e costruzioni di pubblica utilità certamente esistenti in quelle città.
A noi non interessa il riconoscimento e la localizzazione di quei centri. È solo la chiarezza delle notizie e la certezza delle tracce storiche ad avere il maggior peso.
Inoltre non sono pochi i centri abitati perduti per cause varie.
Con Inessa ed Aitna ci può essere KAINON.
Fig. n. 21. Moneta di bronzo di KAINON, in vendita su Ebay.
Monete con la dicitura KAINON sono esposte nelle bacheche del museo di Adrano e non solo. Il prof. R. Macaluso ha pubblicato “Monete a leggenda Kainon” in Philias Charin. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, Roma 1980.
Sono rimasti, sulla collina di Poggio Cocola, ritrovate dall’archeologo Mc Connell nelle campagne di scavo dal 1994 in poi, descritte nei lavori pubblicati dal Distretto Scolastico di Paternò, le fondazioni dei muri delle capanne, le tracce dei focolari, i piani di terracotta dove veniva acceso e alimentato il fuoco per la cottura degli alimenti, i frammenti di recipienti anche di grandi dimensioni per la conservazione dei prodotti dell’agricoltura, grano, olive, vino. Si tratta delle opere di divulgazione più aggiornate e nello stesso tempo scientificamente più complete sull’argomento di cui parliamo.
Si può lavorare di fantasia, formulare ipotesi, immaginare di tutto, ma certezze poche. Allo stato delle conoscenze, se qualcuno avesse conservato reperti sicuramente provenienti da una certa località, sui quali sia leggibile il nome del luogo e fornisca gli elementi probatori dai quali gli archeologi, come agenti di polizia scientifica, ricavano elementi di certezza per risolvere il problema del riconoscimento, avrà dato un contributo eccezionale al miglioramento della conoscenza della storia.
Purtroppo, i testi antichi che parlano di Aitna, raccontano vicende ed eventi, ma non hanno finora permesso di ottenere indicazioni da ritrovare sul terreno per arrivare ad una conclusione certa.
Solo che a me piaceva parlare di Aitna, era un mio desiderio e ho provato a lavorare per un po’, raccogliendo informazioni, leggendo testi, sguazzando su internet.
Il curioso è che oggi Aitna è diventato un nome di persona, molto utilizzato in Europa Orientale.
C’è anche chi, a Catania, ha pensato di chiamare Aitna una ditta che produce oggetti ornamentali, figure in costume, soggetti, modelli molto gradevoli, a colori vivaci, molto ben fatti.
La situazione topografica di fig. n. 1, chiaramente riferita ai secoli in cui la colonizzazione greca era già avviata – la fondazione di Naxos è dell’anno 726 a.C., quella di Katane di un decennio più tarda – si hanno conferme storiche ormai fuori discussione.
Della situazione precedente alla colonizzazione greca si hanno notizie meno certe. Gli studi e gli approfondimenti illuminano piano piano quei periodi meno noti e meno conosciuti.
Da queste fasi della vita siciliana noi incominciamo a parlare, con l’intenzione di suscitare interesse e attenzione.
La domanda che numerosi archeologi si sono posta in tempi diversi ha cercato di evidenziare la formazione della vita sociale nei primi tempi in cui l’uomo è arrivato sul suolo isolano.
La posizione geografica della Sicilia, posta nel mezzo del Mare Mediterraneo, è tale che, chi naviga da una parte all’altra di questo bacino, vi inciampa senza scampo.
In tempi più remoti, ipotizzano alcuni studiosi, l’isola era collegata con la costa africana e appare certa, secondo loro, - dai resti fossili reperiti in tempi e luoghi diversi – che i primi uomini, e anche alcuni animali, passarono a piedi dal continente africano a quello europeo.
Altri studiosi, in tempi più recenti, sostengono che il collegamento tra Africa e Sicilia non sia mai emerso dalle acque del Mediterraneo, il cui livello non si è mai abbassato a sufficienza e pertanto gli uomini dall’Africa siano migrati in Europa via terra, spostandosi dall’Est, in particolare dall’Egeo e dall’Anatolia, verso Ovest.
Successivamente i gruppi umani più o meno numerosi possono essersi spostati nell’isola sia via terra, attraversando i territori a nord, e anche via mare, dall’Oriente, costeggiando la terra emersa, avvalendosi del progresso dei mezzi di navigazione.
Fig. n. 22. Il pannello esposto nel Museo di Adrano evidenzia i siti archeologici dove sono stati rinvenuti reperti risalenti all’età del rame (3400 – 2200 a. C.). La grotta del Vecchiuzzo si trova sulle Madonie.
Le grotte prodotte dallo scorrimento della lava offrivano ricovero e riparo a quanti si spingevano sui fianchi del vulcano. Altre grotte e altri ripari, capanne e ricoveri in ramaglia, tetti di paglia e quanto altro offerto dalla natura hanno costituito le basi di quanti si aggiravano per queste zone, per la caccia e per la ricerca di frutta e radici, per il recupero di quanto ritenuto utile alla vita.
La ricerca delle sorgenti e dei luoghi adatti al soggiorno prolungato di singoli, di famiglie e di gruppi omogenei doveva incitare allo spostamento e alla migrazione. Il successo nel raggiungimento dell’obiettivo costituiva motivo di soddisfazione e di festa della comunità.
Fig. n. 23: pubblicata su “La Sicilia prima dei Greci”, di Luigi Bernabò Brea, pag. 96, indica i luoghi dove sono stati identificati segni archeologici dell’età del bronzo antico (dal 2200 al 1400 a. C.)
Fig. n. 24
Presso il museo di Adrano, questa bella vetrina espone diversi oggetti insieme ad un grande pithos, recipiente destinato a conservare liquidi o cereali. Sono in evidenza le mazze di pietra utilizzate con appropriate legature a manici in legno e uno dei piani leggermente concavi da servire per la frantumazione dei grani, di frumento e orzo, con il mattone di terracotta che, strisciando sui cereali, frantumava e preparava il prodotto per il consumo.
Lo studioso, o anche il curioso, come chi scrive, guarda la vetrina e osserva i diversi oggetti. Riflette: chiaramente questi oggetti sono il frutto di una svolta tecnica ragionata, nata nella mente di qualcuno, nel momento in cui si accorge che servirsi di un sasso legato ad un manico era più efficace e dava più risultati del sasso scheggiato e affilato tenuto in mano, utilizzato per cacciare gli animali di cui cibarsi.
Poi, un altro si avvede che le bacche e i frutti sono utili al sostentamento e che da alcune piante si ricavano spighe contenenti grani utili per l’alimentazione. Il passaggio verso una varietà di usi dei grani alimentari porta rapidamente alla ricerca di uno strumento utile a frantumare i grani ed ecco la macina in primo piano, ricavata dall’argilla modellata e cotta; ovviamente la pietra era più difficile da lavorare.
Era utile conservare i prodotti agricoli, e allora, gli artigiani dell’argilla si impegnano a soddisfare la richiesta dei clienti, costruendo recipienti nelle dimensioni richieste e ritenute adatte.
Non siamo ancora pervenuti all’era dei metalli, rame, bronzo, ferro.
La vetrina riassume un’evoluzione storica, sociale e tecnica rilevantissima.
Il piccolo museo di Adrano appare ricco di importanti reperti, preparati con cura appassionata dal prof. Saro Franco, che gli studenti del Liceo G. Verga di Adrano ricorderanno con simpatia. L’ultima immagine del prof. Franco lo vede al lavoro nella stanzetta del suo museo, concentrato nella preparazione di schede, tabelle e schemi, pensati per facilitare i visitatori, per consentire loro di capire quello che avevano sotto gli occhi e per aprire la mente alla passione per la propria terra e alla storia del passato.
Fig. n. 25: Reperto archeologico esposto nel museo di Adrano.
Si tratta di un contenitore di terracotta con impressi i segni della ruota solare, in tempi recenti chiamati svastiche, e in antico ritenuti segni magici con effetti positivi sul possessore e sul contenuto del recipiente, rinvenuto in una grotta (Scilà) nei pressi di Biancavilla, dove si è trovato un ricovero di genti dell’epoca del bronzo antico, epoca che ebbe sviluppo tra l’anno 2200 a. C. e il 1400 a. C.
Fig. n. 26: Vaso in ceramica monocroma rossa, dello stile di Diana rinvenuto in territorio di Biancavilla, senza altri particolari, esposto nel museo di Siracusa.
Si tratta di un reperto che va assegnato all’epoca immediatamente successiva all’epoca neolitica, all’età del rame, momento che differenzia nettamente l’evoluzione umana, che si sviluppa dall’uso degli attrezzi di pietra verso la ricerca e l’uso dei metalli. Segno distintivo del passaggio, secondo gli studiosi, che hanno ritrovato molti esemplari di questa evoluzione culturale e sociale su una pianura dell’isola di Lipari, sono il tipo di ceramica, la decorazione, i manici a rocchetto e la diffusione in ampie zone della Sicilia.
Fig. n. 27: Il frammento documenta l’esistenza di un grande vaso decorato nello stile castellucciano, la c.d. ceramica piumata.
Nell’insediamento di Inessa - Aitna, la vita associata ebbe inizio, in base alle prove del materiale archeologico rinvenuto nei saggi di Monte Castellaccio, Poggio Cocola e di masseria Poira, all’inizio del terzo millennio a. C. continuò all’epoca del bronzo antico e del ferro, e si estinse forse dopo l’epoca romana.
L’organizzazione sociale della comunità ci tramanda l’esistenza e il nome di un re o di un capo locale, il quale dettava delle regole e le faceva rispettare; forse la comunità costituiva una gerarchia di compiti e di funzioni, decideva delle cariche, distribuiva i compiti per esempio ai più forti la difesa, ai più attenti la sorveglianza, ai solerti l’approvvigionamento.
Bisognava non farsi sorprendere dai malfattori della zona e farsi rispettare dai vicini. Occorreva assicurarsi terreni da coltivare e pascoli per gli animali da allevare, non farsi derubare dei prodotti alimentari e degli armenti, non subire penuria di acqua e non essere esposti alle morie di animali e persone.
Occorreva avere stregoni e maghi, idoli e cerimonie rituali per gli eventi naturali come la vita e la morte, per le malattie e le feste.
Nella valle del Simeto è stato confermato archeologicamente il culto del dio Adrano, protetto dai cani cirnechi, il culto dei Fratelli Palici, che proteggevano la vista, il culto di Cerere, di Proserpina, di Vulcano con la sua fucina dentro l’Etna, il culto di Ercole che personificava il rispetto per il forte.
Gli studiosi dei Sicani e dei Siculi sono concordi nell’apprezzare il livello di civiltà e di evoluzione sociale negli insediamenti che hanno potuto esaminare.
La comunità si organizzava per i bisogni comuni, consapevole che le necessità del singolo trovavano migliori risposte quando il gruppo si faceva carico di risolvere i problemi.
Ovviamente si formavano i gruppi dominanti, i gruppi dei sostenitori e la massa dei poco abbienti, si differenziavano mercanti e artigiani, i soldati e i cavalieri, i braccianti e gli abbienti.
Ma ci è rimasta anche l’ammirazione dei popoli greci che sono entrati in contatto con gli abitatori delle terre sulle quali si sono affacciati in successive ondate migratorie.
L’interesse di quella gente di Inessa - Aitna per le pietre di forma sferica fa venire in mente che l’attenzione alla pietra, che aveva fornito attrezzi – lame, punte di frecce, coltelli, falcetti, raschiatoi – indispensabili per la vita di ogni giorno, il materiale per costruire ripari di una certa consistenza, con cui proteggersi e difendersi con un poco di tranquillità dagli eventi naturali e dai fenomeni vulcanici in mezzo ai quali avevano scelto di vivere, ma anche dalla violenza di vicini e di passanti, potrebbe essere nato in tempi più remoti.
I tempi che noi oggi chiamiamo era neolitica.
Nei centri abitati di quell’epoca, che il tempo ci ha conservato e che gli scavi scientificamente condotti consentono di leggere come libri stampati, si acquisiscono le informazioni e le prove delle tesi ipotizzate. La località San Marco (le Salinelle), presso Paternò, mostra e gli studiosi – il prof. Paolo Orsi e la dr.ssa Laura Maniscalco - lo hanno notato, un insediamento di epoca neolitica che ha rilasciato lame di ossidiana e elementi di falcetto in selce e conserva un muro di oltre 13 metri di lunghezza, alto circa 1 metro, interpetrata come un terrazzamento idoneo a sostenere il terreno piano sul quale costruire le capanne del villaggio. È stato calcolata in quattromila anni l’epoca di inizio di quell’attività umana.
Le foto che di seguito si presentano hanno incuriosito chi scrive e hanno ispirato il titolo di LA STRADA DELLE PALLE DI PIETRA [Nota: la scarsa qualità delle immagini è dovuta al provenire da riprese televisive effettuate dall'autore nel 1991].
Come si vede dalle immagini, si tratta della strada campestre che dalla arteria provinciale asfaltata, nota come strada delle valanghe, immette nell’area di Poggio Cocola e della masseria Poira. Si rimane sconcertati e incuriositi dalla notevole quantità di pietre di forma rotonda o comunque tondeggiante, di arenaria e di basalto che si incontrano per un lungo tratto del percorso.
Questa strada campestre, che certamente ripete un antico tracciato viario, permetteva agli abitanti dell’insediamento di Poggio Cocola di raggiungere sia Centuripe, sia gli altri centri dell’interno, sia di risalire il corso del Simeto.
Queste forme litiche non sono artificiali, non sono prodotte dalla mano di qualcuno. Il corso del fiume Simeto ne è pieno.
Ma certamente qualcuno si è preoccupato di prelevare dal letto del corso d’acqua questi pesanti massi, di caricarli su mezzi di trasporto e di spostarli lungo le strade campestri in forte salita a diversi chilometri di distanza dal luogo di recupero. Qualcuno ha ritenuto di impiegare tempo e fatica, sudore e impegno per abbellire e ornare, secondo la sua valutazione delle cose belle, uno spazio, un tracciato viario, (un tempio di Ercole ?), un luogo dove viveva ogni giorno, allo scopo di raggiungere un migliore livello di vita, una superiore qualità del quotidiano sacrificio.
Chi scrive, ricorda un servizio televisivo di qualche anno addietro, nel quale il prof. Alberto Angela presentava un sito archeologico nel quale era presente qualcosa di simile, un tracciato viario abbellito da due lunghe file di massi rotondi. Se ne deve dedurre che l’uso di abbellire uno spazio con tali oggetti naturali non era un’idea nata soltanto nella mente delle persone che qui abitavano.
Fig. n.28
Figg. n. 29 e n. 30
Figg. n. 31 e n. 32
Figg. n. 33 e n. 34
Figg. n. 35 e n. 36
Figg. n. 37 e n. 38
Figg. n. 39 e n. 40: una macina semisferica e ancora palle di pietra
Non solo palle di pietra, ma anche grandi macine sempre di pietra giacciono sul terreno abbandonate e alla mercè di chiunque transiti per quelle contrade.
In particolare colpisce l’oggetto di fig. n. 39 perché è riconoscibile una macina semisferica per la frantumazione delle olive, come quelle attribuite al perfezionamento di Catone, di un’invenzione di Archimede - cfr. Michele Graziano, Archimede il genio della Sicilia greca, pag. 37, 38 – cioè due semisfere di pietra, collegate da un asse, che girano, mosse da forza animale o umana, all’interno di un contenitore a forma di mortaio, in genere costruito in muratura. Un’altra macina simile come tipo e come dimensioni si vede nei pressi, a pochi metri.
Fig. n. 41: una macina a ruota
A guardare l’immagine di fig. 37, si percepisce che si tratta dell’area dove, con ogni probabilità, sono state edificate le capanne di chi visse e lavorò quei terreni tremila anni fa, la stessa terra che oggi è lavorata dagli attuali proprietari. Su quel terreno dove le macine e le palle di pietra, lucide del sudore di chi le mise in fila per rendere quel panorama gradevole e tale da farlo ricordare a chi vi era nato, non si può sottovalutare né ignorare l’aspetto sociale e culturale della conoscenza e della memoria. Attirare oggi l’attenzione su questi segni della antica memoria e studiare eventi e circostanze connesse con l’evoluzione della vita e della società dovrebbe far aprire gli occhi su una grande finestra sul passato e utilizzarla nel presente.
Chi scrive avrebbe piacere di incontrare e di parlare con i proprietari di questi terreni, prima di tutto per chiedere scusa dell’intrusione e comunque scambiare opinioni e informazioni con chi ha conosciuto minutamente i luoghi e le vicende di questo posto negli ultimi tempi.
Anche la pietra rotonda che si presenta in fig. 41 sembra una macina, ma in forma di ruota.
Fig. n. 42: La piana del Simeto in primo piano, con un tratto del corso del fiume. In secondo piano l’abitato di Biancavilla e, in fondo il profilo caratteristico del vulcano Etna, prima che le ultime eruzioni lo modificassero sensibilmente.
Le ricerche degli archeologi sul territorio ripreso nella foto, ha trovato i segni della vita dell’uomo dal piano, dal corso del fiume Simeto alla fascia alta della vegetazione arborea che presentava utilità economica di sfruttamento agricolo, di coltivazione di piante di ogni genere e di taglio del legname, castagno, pino, quercia, ecc.
Fig. n. 43: La roccia di Pietralunga, formazione naturale che ha dato nome alla località; splendida foto che si può vedere sul sito internet di Paternò, e anche sull’ampio testo pubblicato dal motoscrittore Giovanni Vallone su internet con il titolo “Le coste di Ducezio”.
Fig. n. 44: La collina di Pietralunga. Sul lato destro la roccia di Pietralunga di fig. n. 43, ricovero di uccelli, con in basso i fabbricati moderni della località, l’ex allevamento di cavalli e il fiume Simeto. In alto, sopra la cresta, si vede l’abitato di Adrano e, verso destra, l’abitato di Biancavilla. L’immagine è inserita nella copertina del volume "Pietralunga"
Dietro la collina di Pietralunga si stende la zona di Poggio Cocola e della Masseria Poira con il Castello del barone o della baronessa delli Poira. Dal punto di ripresa di questa foto fig. 44 si può apprezzare la validità dell’opinione di quanti ritenevano che il luogo dove sorgeva Aitna era molto difendibile e naturalmente protetto. Ovviamente, bastava aggirare la collina, sul lato di Inessa, per trovare un pendio assai più dolce e vedere spariti la gran parte degli ostacoli.
Da Inessa era visibile e a poca distanza l’abitato di Centuripe, che si mostra in fig. n. 13.
Questo centro, fondato da qualche gruppo di Sicani al loro arrivo in Sicilia, epoca dagli antichi storici stimata intorno al 1300 a. C., fu successivamente occupato dai Siculi, e, dopo alcuni secoli, fu conquistato dai siracusani di Dionigi. La sovrapposizione di gruppi etnici si è ripetuta in numerosi centri abitati intorno all’Etna.
Più esattamente la cronologia archeologica stima la presenza umana nella valle del Simeto (Paternò) già in epoca neolitica, intorno al 3200 a. C. Potrebbero essere stati i primi gruppi di Sicani che, provenendo dalla penisola, si sono spostati lentamente fino a varcare lo stretto di Messina e si sono diffusi lungo la fascia litoranea del mare Ionio e lungo le rive dei corsi d’acqua dove potevano trovare più facilmente di che vivere.
Il Simeto offriva pesce, anguille, piccoli granchi e la facile preda degli animali che andavano a dissetarsi.
Quando arrivarono altri gruppi etnici, i siculi, i primi abitanti si dovettero ritirare nelle zone alte e dovettero difendere la posizione dai sopravvenuti, inoltre le eruzioni del vulcano scacciarono sempre più indietro le comunità.
Sul sito internet del Comune di Biancavilla si trova un interessante collegamento con una figura di rilevante valore culturale: il canonico Salvatore Portal, uomo di scienze e di cultura nato nel 1789, laureato in medicina presso l’Università di Catania, che nel 1825, impiantò a Biancavilla e curò con notevole impegno, anche finanziario, un Orto Botanico, poco dopo copiato a Catania da Gioeni. Nell’orto botanico venivano coltivate e studiate piante della regione etnea e anche di altre zone; le piante erano considerate per la loro utilità medicinale.
Oggi nel centro storico di Biancavilla esiste un’area denominata Orto Botanico di dimensioni assai limitate. Il luogo appare come il relitto di quel laboratorio scientifico che nel 1800 suscitò l’interesse di studiosi e curiosi.
Il Portal utilizzò le sue piante anche a fini medici per i suoi concittadini. Raccolse una certa quantità di reperti archeologici in un piccolo museo privato, come usava a quel tempo nelle classi di ceto abbiente.
Di questo materiale archeologico nulla si sa, non risulta che qualcuno abbia esaminato e studiato gli oggetti e dove, oggi, questi reperti siano custoditi e infine se qualcuno può esaminarli e studiarli.
L’intenzione di partenza di chi scrive era di raccogliere tutto quello che era disponibile su Inessa e Aitna e l’intenzione è rimasta, tanto che ha trovato posto la parte che segue.
Gli studiosi dei periodi storici precedenti all’arrivo dei greci in Sicilia hanno maturato la convinzione che i catastrofici eventi naturali conseguenti alla distruzione di Tera, l’esplosione del vulcano di Santorino, avvenuto intorno all’anno 1250 a. C., con l’atterramento degli edifici dell’isola di Creta e l’irreparabile distruzione della civiltà minoica, abbiano provocato la fuga degli abitanti superstiti dall’area del disastro, alla ricerca di zone più tranquille dove ricostruire la vita propria e delle proprie famiglie.
La leggenda della venuta di Dedalo in Sicilia, dell’inseguimento da parte di Minosse, delle vicende del re sicano Cocalo, il quale fa uccidere dalle proprie figlie il re Minosse mentre faceva il bagno e dei lavori eseguiti da Dedalo a vantaggio di Cocalo nel suo palazzo, avrebbero riscontro nei favolosi ritrovamenti archeologici visibili nel museo di Agrigento e di Siracusa.
Intorno ad Eraclea Minoa si possono vedere le tombe a tholos, in pratica a cupola, identiche a quelle che si trovano a Micene.
Altre conferme archeologiche sono arrivate dalle ceramiche micenee ritrovate dagli scavatori sia nei pressi di Agrigento che in altre zone dell’isola, a testimonianza dei rapporti tra i gruppi locali e i viaggiatori e mercanti dell’epoca di cui parliamo.
Il sicano re Cocalo probabilmente era arrivato nell’area agrigentina essendosi spostato con i suoi dall’area etnea, o per la pressione dei siculi oppure anche per effetto dei fenomeni vulcanici ripetuti in quel periodo.
Sant’Angelo Muxaro è ritenuto dagli archeologi il luogo dove il re Cocalo ospitò Dedalo e dove il costruttore svolse la sua attività. Eraclea Minora conserva traccia dell’arrivo di Minosse alla ricerca di Dedalo e dove fu sepolto, alla sua morte. Da Agrigento, successivamente, i resti di Minosse furono restituiti ai cretesi con grandi cerimonie di rispetto.
Nel corso di scavi occasionali sono stati trovati due splendidi anelli in oro e quattro coppe in oro splendidamente ornati da figure a sbalzo.Gli anelli si possono vedere a Siracusa. Sul primo si vede una vacca che allatta un vitello e sul secondo un lupo con grandi artigli. La raffigurazione è splendida, eccellente lavoro di un maestro dell’arte orafa.
Figg. n. 46: Gli anelli d’oro ritrovati a S. Angelo Muxaro in una tomba a tholos di stile miceneo e conservati a lungo in Agrigento, oggi sono visibili nel museo di Siracusa..
Si tratta di splendidi oggetti in oro massiccio, su uno dei quali si vede un lupo con le fauci aperte e la lingua penzoloni, con artigli in evidenza e la coda sferzante; sull’altro una capra con gli zoccoli aperti allatta un capretto.
Gli studiosi di archeologia riconoscono lo stile miceneo anche se qualcuno, forse per spirito nazionalistico, sostiene che furono eseguiti in Sicilia da maestranze locali su disegno e indicazione di artisti cretesi.
Altri, invece afferma che si tratti di oggetti importati dall’Egeo, dove sono stati rinvenuti altri oggetti simili nel cosiddetto tesoro dei re di Creta.
Fig. n. 47: L’unica rimasta delle quattro coppe in oro nel 1800 ritrovata a S. Angelo Muxaro, dagli archeologi riconosciuta come un esempio dell’arte micenea del VII sec. a.C., è visibile presso il British. Museum a Londra. Mostra una fila di buoi molto ben disegnati mentre procedono in fila.
Sul pianoro di Poggio Cocola e della masseria Poira, lo sguardo che gira l’orizzonte incontra un fabbricato ormai in rovina che in passato doveva imporsi nel panorama dell’area. Le mappe che si possono consultare su internet con il motore di ricerca Google permettono di ritrovare questo edificio e il percorso per raggiungerlo.
Fig. 48.Resti di un edificio di imponenti dimensioni con caratteristiche di monumentalità, chiamato castello del barone o della baronessa di POIRA. Il fabbricato si incontra nei pressi di Poggio Cocola.
La diligenza dei ricercatori della Soprintendenza Archeologica di Catania, su “Pietralunga” già citata indica la direzione delle ricerche da svolgere presso l’Archivio di Stato a proposito di un feudo di cui è conservata una documentazione cartografica.
La tecnica edilizia della fabbrica, che utilizza pietre squadrate e regolarizzate, non appare antica ma successiva al periodo medioevale a conferma dell’attribuzione a un barone non meglio conosciuto. Il sistema di contrafforzare e rendere più robuste le parti più basse delle murature, nonché le feritoie verticali, visibili su alcune pareti, fanno pensare ad una costruzione di un periodo in cui erano in uso armi da fuoco.
Fig. n. 49. Panoramica del cosiddetto castello.
L’edificio ovviamente non è accessibile e non risulta che finora sia stato studiato ed esplorato da nessuno.
Fig. n. 50 . La ritenuta grotta degli schiavi.
Altri ritiene che si tratti di una tomba a grotticella del periodo castellucciano.
Il castello, da qualcuno è ritenuto come costruito su un precedente edificio di epoca romana e vi collega l’ergastulum e cioè il luogo dove venivano rinchiusi gli schiavi alla fine della giornata di lavoro, oppure il luogo dove tenere rinchiusi gli schiavi puniti. Non risultano chiare le motivazioni alla base delle ipotesi.
Fig. n. 51.Foto di quello che sembra l’ingresso dal castello. Sul portone sembra di individuare due feritoie che potrebbero essere servite per alzare e abbassare un improbabile ponte levatoio, o una probabile robusta paratia a rinforzo e protezione del portone d’ingresso.
Fig. n. 52.Quella che appare come un feritoia per l’uso di armi da fuoco. Se confermata l’ipotesi sarebbe determinante per la datazione del fabbricato.
Fig. n. 53. La tecnica muraria dell’edificio potrebbe testimoniare un nascita dell’edificio di epoca recente.
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Fig. n. 54.Questa parte del fabbricato appare più antica, da quello che mostra la tecnica di edificazione e l’uso di pietre regolarizzate solo nella faccia a vista.
Fig. n. 55.La dimensione del fabbricato appare notevole. Non risultano esaminate la destinazione dei locali, né le misure dei vani. Si vede dalle foto un piano terreno e una sopraelevazione. In apparenza inaccessibile.
Fig. n. 56.In questa parte del fabbricato i piani in sopraelevazione potrebbero essere due.
Questa è ricerca di un dilettante che ha inteso raccogliere e presentare a curiosi e interessati, tutte le notizie disponibili che hanno attinenza con Aitna e Inessa. Può anche essere sfuggita qualcosa, ma si spera sarà perdonata l’omissione involontaria.
Un amico, il prof. Marco Buonocore della Biblioteca Vaticana, ha attirato l’attenzione di chi scrive su un saggio pubblicato nel 1990 dalla Scuola Normale di Pisa e dall’Ecole Francaise de Rome, Centre J.Berard Naples su BIBLIOGRAFIA TOPOGRAFICA diretta da Nenci e Vallet, ignoto al momento della stesura della ricerca.
Il testo dal titolo INESSA, particolarmente documentato e approfondito, è il frutto dell’impegno professionale di Morella Massa.
Il ventaglio dei segmenti esaminati e sviluppati (La topografia, le fonti letterarie, le fonti epigrafiche, le vicende storiche, l’economia, le istituzioni, i culti, la storia della ricerca archeologica) dimostra l’accuratezza e la profonda conoscenza dell’autrice per quanto riguarda la materia. La bibliografia elenca tutti i testi disponibili e gli autori che si sono occupati del tema dal 1558 al 1990. Pertanto non poteva includere i resoconti delle ricerche successive che hanno esteso la cronologia dei reperti rinvenuti negli scavi presso la località Poira dopo tale data.
Non figura neanche la citazione di Polieno, retore del II sec. d.C. che ha lasciato otto libri di “Stratagemmi” dedicati all’imperatore Marco Aurelio e al figlio, l’imperatore Lucio Vero, integralmente rimastici, salvo piccole lacune.
Polieno riferisce nel V libro lo stratagemma di Falaride di Siracusa per conquistare e saccheggiare Inessa, al tempo governata dal re sicano Teuto.
Nessun riferimento vi si trova sul personaggio di nome Cromio, valoroso generale di Ierone il grande, quando era ancora a Gela, e dopo, quando Ierone prese il potere a Siracusa.
Cromio di Aitna, sposò una sorella di Ierone, lo seguì, acquistando merito e considerazione anche alla battaglia di Imera ed ebbe l’incarico di governare Aitna. Qui fu sepolto alla sua morte. Un’ode di Pindaro composta quando il poeta soggiornò a lungo a Siracusa e scrisse odi celebrative dei governanti di questa grande città.
BIBLIOGRAFIA